Il corpo che rappresenta

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L’attore indiano, a differenza di quello occidentale, dispone di un vastissimo patrimonio tecnico, sia raccolto in testi specifici, sia tramandato oralmente in quel rapporto particolare e fondante che è la trasmissione maestro-allievo, guru-śiṣya-paramparā. Il guru, non solo guida e maestro, ma anche padre spirituale, svolge una precisa funzione genitoriale in termini di modello da imitare acriticamente. Come il bambino riproduce gesti, parole, atteggiamenti del padre, così l’allievo riproduce senza discutere quanto il maestro gli mostra, in totale fiducia e devozione.

È proprio all’interno di questo sentire e di questa modalità d’insegnamento che si preserva e si garantisce l’integrità e la purezza di una scuola d’arte scenica. Tuttavia il veto a confrontarsi con altre realtà ha portato in certi casi all’isolamento e all’atrofia. Numerosi maestri indiani contemporanei si sono dunque aperti al confronto con altre linee d’insegnamento in India e all’estero per esplorare differenti modalità.

Le tecniche corporee indiane [1] conducono ad un’altissima qualità di presenza scenica derivata dal lavoro sull’equilibrio, sulla consapevolezza delle forze che animano il movimento e sulla capacità di utilizzarle in modo non convenzionale. Nel movimento “normale” e quotidiano si mira ad ottenere la massima resa con il minimo sforzo. Ma nella resa scenica l’uso del corpo si prefigge una comunicazione particolare, perseguita con tecniche di movimento extraquotidiane o straordinarie [2] . L’attore vuole informare e quindi – spiega Eugenio Barba – mette “in-forma” il corpo in un certo modo. I movimenti vengono studiati minuziosamente nelle loro dinamiche, isolandoli gli uni dagli altri e scomponendo per ciascuno la dialettica azione-reazione delle forze motorie, per poi rimontarli in una sorta di moviola. Si eliminano i movimenti ritenuti non pertinenti o non essenziali alla comunicazione voluta e si riproducono quelli prescelti ribaltando e invertendo il gioco delle spinte.

Il movimento sgorga dal contrasto tra la forza che vuole esprimerlo e quella che vuole trattenerlo e il culmine si raggiunge quando il gesto si libera da ciò che lo imprigiona, per poi bloccarsi di nuovo trattenuto da un’altra resistenza. La tecnica rigorosa (e dolorosa!) toglie al corpo gli automatismi quotidiani e smantella la sicurezza di un equilibrio acquisito geneticamente. Dal disequilibrio si generano tensioni organiche che costruiscono una diversa presenza nello spazio, amplificata dallo sforzo.  L’amplificazione dei gesti è ulteriormente estesa nel teatro indiano dal trucco e dal costume, che sostituiscono la scena ed enfatizzano l’attore. L’espressione dell’attore deriva, quasi suo malgrado, dall’uso della sua presenza fisica [3].

Mavin Khoo in “Passioni parallele” (2001), foto di Eric Richmond in “New directions in indian dance”, Sunil Kothari, Marg publications

La tecnica diventa strumento imprescindibile per comunicare: perché vi sia un contenuto, un’essenza, nāma, è indispensabile una cornice che lo contenga e una forma che lo esprima, rūpa. Affinché qualche cosa possa essere manifestato è indispensabile l’intervento di māyā, la misura, che delimita nel tempo e nello spazio l’energia e il potere d’espansione, śakti [4]. Perché l’attore possa esprimere, è imprescindibile la conoscenza del linguaggio adeguato: la tecnica corporea.  L’attenzione primaria non è sul cosa si vuole rappresentare, ma sul come, e la dimensione “psicologica” dell’attore è subordinata (o forse meglio conseguente) alla sua preparazione “fisiologica”. Sembra quasi che i maestri di scena indiani avessero intuito quanto oggi le neuroscienze affermano, e cioè che il corpo percepisce ed esprime le emozioni con determinati processi e atteggiamenti prima che queste vengano comprese a livello cosciente: l’espressione precede la consapevolezza dell’emozione. L’attore allora non tanto agisce, quanto piuttosto è agito da energie profonde, pre-consce, messe in moto dalla tecnica corporea che informa attore e spettatore al tempo stesso. Proprio perché percepita e rappresentata in modo non ancora consapevole, la comunicazione emotiva ha un impatto immediato e commovente nel senso letterale del termine, cioè muove forze interiori [5].

Sembra un paradosso: l’attore non emozionato scatena emozioni. Ma secondo la teoria indiana sono proprio la disidentificazione e il distacco che permettono all’attore di trasferire il sentire individuale su un piano universale, realizzando il rasa e gli effetti catartici. Si è molto lontani da una certa concezione occidentale del teatro, secondo la quale l’attore o la danzatrice rendono al meglio quando sono psicologicamente coinvolti.

Riassumendo: l’attore indiano tende alla spersonalizzazione e all’allontanamento dal quotidiano, un allontanamento che abbiamo visto non essere alienazione, ma contrapposizione e tensione. Lo strumento è la tecnica corporea, ove il movimento extra-quotidiano è requisito basilare per una pre-espressività e garanzia di contenimento e di disidentificazione. L’attenzione alla fisiologia è superiore a quella per la psicologia, poiché la comunicazione teatrale si basa anche e soprattutto su un linguaggio non verbale. La tecnica scenica indiana libera dai movimenti e dagli schemi convenzionali e abitudinari, per insegnare una gestualità extra-ordinaria, che stabilisce con lo spettatore una comunicazione che precede e va oltre quella cosciente localizzata nella corteccia pre-frontale. Ad essere in gioco sono aree più antiche del cervello, coinvolte nel sistema limbico e sollecitate da una gestualità archetipica, arcana, rituale.

M.A.

NOTE

[1] L’attenzione al corpo quale strumento di espressione e di realizzazione spirituale è una delle caratteristiche salienti della cultura indiana. Basti citare l’Hathayoga, insieme di scuole e correnti ove āsana, la “postura”, e prāṇāyāma, “la consapevolezza respiratoria” che l’anima, sono tappe imprescindibili del percorso. Il corpo, soggiogato e unificato, diviene la forma, rūpa, di un’essenza, nāma, che proprio attraverso la disciplina psicofisica si fa presente.
[2] Secondo Eugenio Barba, a cui si deve la divisione fra tecniche quotidiane di movimento e tecniche extraquotidiane, esiste un altro utilizzo del corpo: quello virtuosistico degli atleti, degli acrobati o anche di certi mimi e attori che non comunica, ma stupisce. E’ una sorta di “altro corpo” che usa tecniche lontanissime da quelle quotidiane e diventa alieno.
[3] Eugenio Barba, “Al di là delle isole galleggianti” in “Anatomia del teatro” di Nicola Savarese, ed. La Casa Usher.
[4] Con questo termine si intende sia l’energia di espansione e di diversificazione che proietta l’Uno nel molteplice e l’Unità nella diversità, sia la Dea, Signora della vita e della morte.
[5] Sarebbe interessante esplorare il fenomeno alla luce delle recenti scoperte di Giacomo Rizzolati sui neuroni specchio.


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