Simboli, colori e gesti nel teatro tradizionale cinese

di Isabella Doniselli Eramo

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Introduzione

Il teatro cinese trae origine da antichissimi riti e da cerimonie compiute dagli sciamani (uomini e donne) che agivano come mediatori tra i mortali e le divinità. Questi rituali, di cui si trovano tracce risalenti ad epoche precedenti la Dinastia Zhou Occidentali (1122 – 771 a.C.), si collegano al ritmo delle stagioni, alle principali ricorrenze del calendario lunare e alle fasi più importanti dell’attività agricola. In alcune raccolte di documenti, come il Libro delle Odi (risalente alla citata Dinastia Zhou) o gli Annali della Dinastia Han (composti nel III secolo d.C.), si trovano descrizioni di queste cerimonie, dalle quali emergono molti elementi teatrali: maschere, costumi, danze, canti, acrobazie e combattimenti rituali.

Con la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) si diffonde l’uso di celebrare con musica, danze e canti anche le vittorie militari. Nasce così una forma particolare di balletto, che può essere considerata l’antenata delle rappresentazioni militari, dette wu, del teatro classico e popolare cinese. Contemporaneamente molte danze rituali perdono la loro valenza religiosa e si trasformano in momenti di puro svago, mentre si affermano figure professionali come danzatori e danzatrici o giullari di corte.[1]

Occorre arrivare alla dinastia Tang (618-907) per incontrare le prime forme strutturate di teatro di evasione. Il vivace cosmopolitismo che caratterizza l’epoca Tang e il dinamismo della vita culturale del tempo portano importanti influssi vivificatori a tutte le espressioni artistiche, specialmente durante il regno dell’imperatore Xuanzong (anni di regno 712-756), grande mecenate e artista lui stesso, che fonda, analogamente a quanto avvenuto per le altre arti, un’Accademia imperiale per la preparazione di attori, cantanti e musici, la cosiddetta Accademia del Giardino dei Peri, dal nome del luogo dove aveva sede. Ancora oggi un titolo onorifico molto ambito in Cina da parte della la gente di teatro è quello di ‘Allievo del Giardino dei Peri’. Delle opere teatrali di epoca Tang ci è pervenuto pochissimo: alcuni titoli e alcuni brevi frammenti di canovacci in lingua volgare, dai quali si può dedurre che i soggetti erano leggende, antiche storie, episodi edificanti, apologhi, episodi della vita del Buddha. Molti di questi soggetti verranno ripresi in opere teatrali di epoche successive.

In epoca Song (970-1279) il teatro cinese riceve nuovo impulso dall’ascesa della classe borghese. Il lungo periodo di pace che gli imperatori Song hanno saputo assicurare al paese, infatti, crea le condizioni più favorevoli al prosperare dei commerci e dell’artigianato e, quindi, all’affermarsi di un ceto cittadino facoltoso, che apprezza particolarmente le espressioni artistiche più immediate, come appunto il teatro. In questo periodo si strutturano anche le prime compagnie teatrali sia stabili sia itineranti.[2]

Il momento di massimo sviluppo del teatro cinese corrisponde alla dominazione mongola (1279-1368), che favorisce l’introduzione in Cina di forme teatrali e di spettacolo tipiche di altre etnie, arricchendo le modalità e le forme espressive del teatro cinese. D’altra parte il teatro diventa strumento e luogo di esternazione del malcontento e dell’indignazione delle popolazioni soggiogate dalla dittatura mongola. In questo contesto anche i colti e raffinati letterati confuciani, che in passato hanno sempre guardato con molta sufficienza al teatro, considerandolo una forma espressiva popolare di basso livello, si fanno coinvolgere nella scrittura di testi di protesta sociale e di critica politica contro i dominatori mongoli che li hanno estromessi dalla gestione del potere e dall’amministrazione dell’impero.[3] Ne conseguono uno straordinario arricchimento dei soggetti e dei temi trattati e un altrettanto significativo miglioramento formale dei testi.

Durante la dominazione mongola cominciano a delinearsi due grandi scuole: la Scuola del Nord, che prospera intorno alla nuova capitale della dinastia mongola, Pechino, e la Scuola del Sud, che si sviluppa a Hangzhou, ex capitale della spodestata dinastia Song. Il teatro del nord mette in scena di preferenza episodi militari, privilegiando, quindi, lo sviluppo della danza acrobatica e delle arti marziali. I drammi, in genere, sono divisi in quattro atti e l’accompagnamento musicale è eseguito da tamburi, gong, nacchere e strumenti a corda molto duri e aspri. Le arie sono derivate da canzoni dei popoli del nord e dell’Asia centrale. Le parti cantate sono riservate all’interprete principale, mentre tutti gli altri personaggi si limitano a recitare in prosa ritmata e declamata. Il teatro del sud è caratterizzato, invece, da una musica più dolce e melodica, con accompagnamento di flauto. Tutti gli attori possono cantare e, così, si possono avere anche dei duetti, dei quartetti e oltre. La lingua è molto vicina al cinese classico, la lunghezza delle opere non è prestabilita, i soggetti sono quasi sempre storie a lieto fine, storie d’amore, vicende edificanti. Le due scuole prosperano insieme per circa un secolo.

Con l’inizio della dinastia Ming (1368-1644), in clima di restaurazione e di recupero delle migliori tradizioni culturali cinesi, il teatro del nord subisce un declino a tutto vantaggio di quello del sud, che si sviluppa e si arricchisce di nuovi elementi. I drammi sono lunghissimi, composti anche da 30 o 40 atti e possono durare alcuni giorni. Ogni atto, tuttavia, è un episodio compiuto in se stesso, con un proprio titolo e una propria organicità e può, quindi, essere rappresentato anche isolatamente. I personaggi corrispondono a ruoli fissi e tutti possono cantare. Le arie sono dolci e sono accompagnate da strumenti a fiato. Centro dell’arte teatrale dell’epoca Ming è ancora Hangzhou, cui si aggiungono anche Nanchino e Suzhou. Queste città hanno interi quartieri riservati al divertimenti e abitati da attori, compositori, cantanti oltre che da cortigiane e pullulano di teatri e case da tè dove è allestito stabilmente un palco per la rappresentazione di opere teatrali.

Intorno al Cinquecento alcuni artisti di Suzhou danno origine a una nuova scuola teatrale, chiamata Kunqu 崑曲.[4] Il nuovo genere è caratterizzato da un maggiore sviluppo e una maggiore complessità dell’accompagnamento musicale ed è destinato a un pubblico colto e raffinato. Per i testi usa uno stile letterario, fortemente classicheggiante, spesso involuto e, quindi, di difficile interpretazione. Tuttavia inizialmente ha molto successo e molti scrittori e letterati di fama si dedicano a scrivere opere teatrali di notevole pregio, sovente basandosi su antichi canovacci. Nonostante la difficoltà di interpretazione, questo genere teatrale resta in auge fino alla metà del XIX secolo.[5] Quasi come reazione, o come contrappeso, alla scuola Kunqu, troppo intellettualistica, fioriscono a livello locale molte scuole popolari a carattere regionale, differenti tra loro nello stile, nelle tecniche, nel genere dei soggetti rappresentati. Tutte hanno in comune l’impiego di canto, musica, danza, mimica, maschere e costumi ricchi e sontuosi.

Quello che ancora oggi è più spesso rappresentato e che è comunemente percepito come il teatro classico cinese per antonomasia, è l’Opera di Pechino o Jingju 京剧 (= dramma della capitale), frutto della sovrapposizione di diverse tradizioni storiche locali sparse nell’immenso territorio cinese, innestate sulla salda base del Kunqu. Nata alla fine del XVIII secolo si caratterizza per un originale e armonico insieme di musica, canto, recitazione, letteratura e arti marziali e raggiunge il massimo sviluppo nel XIX secolo, quando viene appunto coniato il termine Jingjiu.[6]

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Jingju 京剧: simboli, colori, costumi e gesti

Come molte altre forme di espressione artistica cinese, il teatro tradizionale si fonda sul principio di evocare più che riprodurre, di suggerire più che esprimere esplicitamente.

La scena del teatro cinese, per esempio, si presenta praticamente vuota e la scenografia – a dir poco minimalista – crea una realtà “altra” principalmente attraverso elementi simbolici. Gli unici elementi sono un fondale, che nella migliore tradizione è in tinta unita, un tavolo e due sedie ricoperte di tessuto rosso. Il significato di queste poche suppellettili è altamente simbolico: possono rappresentare un’altura, o un letto, o un altare, o una rupe dall’alto della quale un personaggio si precipita per suicidarsi. Possono rappresentare il trono imperiale, o il seggio di una divinità o, addirittura, la luna su cui vola lo spirito di uno dei personaggi. Gli attori si muovono nello spazio vuoto del palco, creando essi stessi la scena: con i loro gesti, i loro costumi, alcuni oggetti simbolici che stringono fra le mani, sanno far immaginare allo spettatore l’intera scena e l’intera situazione da cui scaturisce la vicenda. Un uomo che entra in scena con un remo in mano è certamente un barcaiolo e il fatto che si muova in modo singolare, come ondeggiando, significa che si trova a bordo della sua barca, su un fiume impetuoso. Una fanciulla che tiene tra le mani una catena è sicuramente prigioniera e, forse, sta languendo in una cella aspettando il suo liberatore. Altri elementi che, introdotti in scena o portati in mano da uno degli attori, contribuiscono a definire l’intero scenario e a chiarire la situazione, sono gli stendardi. Una bandiera azzurra, magari ricamata con motivi di pesci, indica che la scena si svolge sul fondo del mare. Una bandiera nera sventolata da un attore o da un valletto indica una tempesta in arrivo. Un paravento con disegnati una torre o un portale, rappresenta una cittadella assediata, così come stendardi con immagini di ruote indicano carri o carrozze da viaggio. Nelle scene di battaglia, in cui si dà spettacolo di acrobazia e arti marziali, spesso gli attori impugnano lance o bastoni ornati di una nappa rossa: è il simbolo del frustino e significa che si tratta di soldati a cavallo, pertanto la battaglia altro non è che lo scontro tra le cavallerie avversarie. Se il frustino viene impugnato soltanto con la mano sinistra, significa che il soldato sta smontando da cavallo. Quando i guerrieri, invece, combattono con una spada, sicuramente si tratta di un duello o di un combattimento a piedi. [7]

La stessa gestualità si basa sul concetto di evocazione: alzare un piede come se si iniziasse a camminare comunica fisicamente al pubblico che il protagonista sta iniziando un lungo viaggio a piedi. Nascondere il volto dietro le lunghe maniche del costume evoca l’idea di un pianto e di un dolore inconsolabile. Passare il frustino da una mano all’altra indica che il personaggio è smontato da cavallo. In quest’ottica è fondamentale il modo in cui gli attori muovono il corpo, si truccano il volto, si vestono, in una ricca e complessa rete di significati simbolici e di segni convenzionali che il pubblico cinese è capace di leggere e interpretare correttamente.

In ogni rappresentazione hanno un ruolo fondamentale i valletti, uomini vestiti di nero, che si muovono liberamente in scena, introducendo di volta in volta gli elementi necessari in un determinato momento e togliendo quelli non più utili. Eccoli, dunque, introdurre le sedie, oppure portare e agitare gli stendardi richiesti dalla scena o, ancora, liberare il palcoscenico da ogni oggetto che possa creare impaccio per la scena di battaglia che sta per essere rappresentata. In passato i valletti intervenivano anche, in occasione di rappresentazioni particolarmente lunghe e faticose, per portare agli attori bevande, cibi e altri generi di conforto, per consentire loro di giungere indenni fino alla fine dello spettacolo, sopportando il prolungato e faticoso impegno.

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Gli attori dell’Opera di Pechino Jingjiu recitano conformandosi a precisi ruoli fissi, ai quali si riconducono tutti i personaggi; sono facilmente identificabili sulla base delle caratteristiche dei costumi e dei particolari del trucco, che assumono pertanto un’importanza fondamentale per la comprensione dell’intera opera ; rispondono a requisiti da tempo codificati, al punto che l’esperto pubblico cinese, al solo comparire in scena del personaggio, ne conosce immediatamente la storia, la personalità, lo stato d’animo, dalla semplice osservazione dei dettagli dell’abito e del trucco.[8]

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Danè il ruolo femminile, caratterizzato da un trucco tutto giocato sui toni del rosa e del bianco, che tende soprattutto a conferire al viso una forma il più possibile ovale, al punto che viene detto “viso a uovo d’anatra”. Il ruolo dan si suddivide in molte specializzazioni diverse: dan giovane, dan matura, anziana, fanciulla virtuosa, donna di facili costumi, popolana intrigante, ragazza scaltra, donna guerriera. Le diverse specialità di dan si distinguono l’una dall’altra per alcuni particolari del trucco, del costume o dell’acconciatura. Il ruolo femminile dan non è necessariamente interpretato da una donna. Anzi, un celebre editto del 1777 dell’imperatore Qianlong (regno 1736-1796) della dinastia Qing (1644-1911), per ragioni di moralità, proibisce alle donne di calcare le scene. Da allora i ruoli dan vengono interpretati da uomini, da giovanetti che devono imparare ad atteggiarsi, a muoversi, a cantare come donne. Anche dopo la caduta dell’impero nel 1911, e quindi con il decadere dell’editto imperiale del 1777, benché le donne tornino a calcare regolarmente le scene, tuttavia l’uso di far recitare uomini nei ruoli dan viene continuato. Anzi, alcuni attori sono diventati celebri in tutto il mondo per la loro abilità nei ruoli femminili. È il caso, per esempio, di Mei Lanfang, morto a Pechino nel 1961, celebre anche nei teatri d’Europa e d’America come ineguagliato interprete di parti femminili. Alla caduta dell’impero sono sorte compagnie teatrali composte di sole donne, che interpretano anche ruoli maschili. Oggi uomini e donne recitano insieme, ciascuno nel ruolo che gli è più confacente, specializzandosi indifferentemente in ruoli maschili o femminili. Del ruolo dan esiste anche la specializzazione militare, la donna guerriera; è caratterizzata dal tipico trucco “a uovo d’anatra”, cui si aggiunge una pesante acconciatura, ricca di piume e nappe, tipica di tutti i ruoli militari, anche maschili. L’interprete del ruolo dan militare deve essere esperto nel maneggiare le armi e deve avere un’eccezionale padronanza delle arti marziali.

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Sheng è il ruolo maschile, con diverse specializzazioni, analogamente al dan femminile: sheng giovane, maturo, anziano, di alto lignaggio, popolano, civile, militare. Lo sheng giovane ha un trucco semplicissimo, ridotto all’essenziale, tanto da apparire inesistente; non ha barba, deve essere abile nel maneggiare il ventaglio e canta in falsetto. Per questo motivo, oggi, il più delle volte è impersonato da attrici, poiché le caratteristiche vocali delle donne permettono di ottenere con maggiore facilità e con migliori risultati gli effetti vocali richiesti allo sheng giovane. Le specializzazioni di sheng maturo e anziano sono caratterizzate da lunghe barbe brune o bianche.

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Jing (= viso dipinto) è un ruolo molto particolare: impersona guerrieri coraggiosi, ministri e funzionari abili o traditori, giudici, governatori, esseri soprannaturali. Deve avere corporatura imponente e, per accrescere questa caratteristica, indossa costumi con le spalle imbottite e calzature con zeppe molto alte. Ha voce tonante, ma la sua personalità è definita soprattutto dal trucco del viso, coloratissimo e complicatissimo. Ogni colore ha un preciso significato e ogni disegno o combinazione di colori ne definisce particolari sfumature. Rosso significa carattere leale; giallo significa astuto; nero, semplice e retto; bianco, traditore; blu, crudele; rosa, vecchio; verde, creatura soprannaturale. Più i disegni dipinti sul volto sono complicati e asimmetrici e più sono i colori che vi compaiono, più il carattere del personaggio è psicologicamente complicato, pieno di contraddizioni e di incertezze, combattuto fra opposti sentimenti. L’origine di questo tipo di trucco così complesso risale ai tempi più antichi, quando gli attori che interpretavano le pantomime di carattere religioso portavano maschere di cartapesta colorata.

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Molto importante nell’Opera di Pechino è anche il ruolo chou , il comico, il clown. Ha spesso funzioni di servitore, o di mezzano o di popolano che si intromette nella vicenda, intervenendo con una battuta o con la semplice mimica a sdrammatizzare l’atmosfera troppo tesa, o eccessivamente drammatica o romantica. In genere è un ottimo acrobata, un esperto mimo e un vero e proprio comico. Di solito è un personaggio ambiguo e intrigante (tanto che il trucco caratterizzante questo ruolo è bianco, a forma di farfalla o mascherina posta tra occhi e naso), che interviene frequentemente a ingarbugliare la vicenda, ma altrettanto spesso risolve le situazioni più intricate.

Anche i costumi, i loro colori, i loro dettagli, i loro motivi decorativi hanno un preciso e particolareggiato significato simbolico, di estrema importanza ai fini della comprensione della vicenda rappresentata e dei caratteri dei personaggi. In particolare i colori sono legati ai ruoli dei personaggi: il giallo è il colore dei membri della famiglia imperiale, il rosso indica personaggi di alto rango, il viola e il blu distinguono i funzionari di stato, il nero è il colore dei popolani. I motivi decorativi e alcuni accessori alludono, invece, alla stagione in cui si svolge la scena. I costumi sono confezionati con tessuti pregiati, sete e broccati di rara bellezza, finemente ricamati. Anche i motivi decorativi dei ricami o le fantasie dei tessuti hanno precisi significati simbolici, attingendo al vastissimo repertorio del simbolismo dei motivi decorativi cinesi. Per esempio, il drago è simbolo del potere imperiale, la tigre indica virilità e potenza guerriera, la fenice è simbolo dell’imperatrice, il pipistrello significa fortuna, la peonia e il fiore di susino rappresentano la bellezza e la delicatezza femminile, il pesce la ricchezza, il pino e il bambù ricordano le virtù confuciane.

Un elemento degno di particolare attenzione sono le cosiddette shuixiu 水袖 (maniche d’acqua), le lunghe maniche bianche fluttuanti che sporgono dalle maniche dei costumi di tutti i ruoli, dallo sheng, alla dan, al jing, al chou. Generalmente l’attore le tiene arrotolate sui polsi, ma in determinati momenti e per particolari esigenze della sua mimica, può scioglierle e utilizzarle per esprimere, con precisi gesti, il proprio stato d’animo. Esistono più di sessanta modi differenti per muovere le “maniche d’acqua”, ciascuno con un suo preciso significato e occorre osservare molto attentamente come l’attore le muove, per comprendere a fondo le condizioni emotive del personaggio. L’acquisizione della tecnica espressiva delle “maniche d’acqua” richiede all’allievo attore molti anni di studio e di pratica.

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Considerazioni analoghe possono essere fatte riguardo alle lunghissime piume di fagiano che talora ornano le pesanti acconciature distintive dei ruoli militari. Oltre a essere simbolo di un grado di comando molto elevato, infatti, le piume di fagiano partecipano alla mimica dell’attore, che sa farle ondeggiare in mille modi diversi, le afferra con le mani, le agita con rapidi movimenti del capo, addirittura le stringe fra i denti (un gesto, questo, che indica profonda ira e risolutezza), sempre allo scopo di precisare la situazione psicologica del personaggio. Altri elementi singolari e importanti dei costumi dei ruoli militari sono le bandiere che il personaggio talvolta porta infisse sulla schiena e che rappresentano le armate che combattono agli ordini del condottiero, così come le ampie cinture, esageratamente larghe anche per la corporatura eccezionalmente imponente dei ruoli militari, indicano la potenza e l’autorevolezza del personaggio, direttamente proporzionale all’ampiezza della cintura. Il particolare della cintura non è esclusiva dei ruoli militari, ma spesso è presente anche in ruoli sheng o jing della specializzazione civile, vale a dire ruoli di personaggi come funzionari di alto rango, ministri, governatori.

Dunque, gran parte del fascino del teatro Jingjiu risiede soprattutto nel sottile linguaggio simbolico dei gesti e dei colori che, insieme alla musica, al canto, alle arti marziali, costituiscono l’ossatura delle opere teatrali classiche cinesi.


Le illustrazioni sono tratte da  “Album delle Facce dell’Ufficio della Grande Pace” 昇平署臉譜 digitalizzato dalla World Digital Library http://www.wdl.org/en/item/3023/

NOTE

[1] Cfr: Teatro Cinese. Architetture costumi scenografie, R. Pilone, S. Ragaini, W. Yu (a cura di), Milano 1995, p. 11.
[2] Ibidem, pp. 12-13.
[3] Yu Weijie, Tradizione e realtà del teatro cinese. Dalle origini ai nostri giorni, Milano 1995, pp. 25-35.
[4] L’Unesco ha riconosciuto all’inizio degli anni Duemila il teatro Kunqu quale patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Cfr: I. Doniselli Eramo, Jingju. Il teatro cinese nella Collezione Pilone, in Quaderni Asiatici, n. 109, marzo 2015, Milano.
[5] Cfr: Teatro Cinese. Architetture costumi scenografie, R. Pilone, S. Ragaini, W. Yu (a cura di), Milano 1995, pp. 17-19.
[6] B. Gianinazzi, Il teatro cinese fra incanto e disincanto: l’appassionata ricerca di Rosanna Pilone in Jingju. Il teatro cinese nella Collezione Pilone, a cura di E. Gagliardi Mangili e B. Gianinazzi, Cinisello Balsamo, 2014.
[7] I. Doniselli Eramo, Primo incontro con la Cina, Milano 1994, pp. 153-158.
[8] Cfr: Teatro Cinese. Architetture costumi scenografie, R. Pilone, S. Ragaini, W. Yu (a cura di), Milano 1995. Uno schema riassuntivo dei diversi ruoli e di tutte le relative varianti è riportato alle pp. 98-99.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

AA.VV., Jingju. Il teatro cinese nella Collezione Pilone, E. Gagliardi Mangili e B. Gianinazzi (a cura di), Cinisello Balsamo 2014;
AA.VV., Teatro Cinese. Architetture costumi scenografie, R. Pilone, S. Ragaini, W. Yu (a cura di), Milano 1995;
DONISELLI ERAMO I., Jingju. Il teatro cinese nella Collezione Pilone, in Quaderni Asiatici, n. 109, marzo 2015, Milano;
DONISELLI ERAMO I., Primo incontro con la Cina, Milano 1994;
GIANINAZZI B., Il teatro cinese fra incanto e disincanto: l’appassionata ricerca di Rosanna Pilone in Jingju. Il teatro cinese nella Collezione Pilone, a cura di E. Gagliardi Mangili e B. Gianinazzi, Cinisello Balsamo 2014;
PILONE R., Oltre la maschera. Storia di ragazzi d’opera cinese, Milano 1995;
PISU R., TOMIYAMA H., L’Opera di Pechino, Milano 1981;
YU WEIJIE, Tradizione e realtà del teatro cinese. Dalle origini ai nostri giorni, Milano 1995.


Isabella Doniselli Eramo, sinologa, è vicepresidente di ICOO Istituto di Cultura per l’Oriente e l’Occidente e coordinatrice della Collana “Biblioteca ICOO” di Luni Editrice. Socio fondatore del Centro di Cultura Italia Asia, consulente per la cultura cinese del Museo Popoli e Culture del PIME di Milano e socia del Centro Studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina di Trento, è stata responsabile per l’area “Cina” del Comitato di Esperti della rivista di studi sull’Asia “Quaderni Asiatici”.