Letteratura e teatro delle ombre a Giava

PDF

Come citare

GENTILI Bruno, “Letteratura e teatro delle ombre a Giava”, AsiaTeatro – rivista di studi online, anno 2022, n.1, pp. 73-116.

https://doi.org/10.55154/GROW3124

Abstract. La letteratura indonesiana e il teatro delle ombre giavanese si sono formati nel corso di oltre un millennio attraverso un lungo e complesso processo di integrazione di diverse culture che si sono succedute nei secoli. Il teatro in particolare ha attraversato la storia senza mai perdere la sua preziosa funzione sociale, culturale e identitaria, arricchendosi ad ogni passaggio storico di contributi sempre nuovi, integrati ed accolti ogni volta senza mai rinnegare e snaturare le esperienze precedenti. Dopo aver esaminato brevemente la raffinata produzione letteraria da cui il teatro ha tratto alimento, questo articolo si sofferma sull’esperienza del teatro delle ombre wayang kulit, delineandone la struttura performativa, i soggetti, i temi e le modalità della rappresentazione, le tipologie, le caratteristiche e i ruoli delle principali figure. Ne viene evidenziata la fondamentale funzione di accumulo e di trasmissione dinamica di esperienze culturali e spirituali, sviluppate attorno al complesso tema del rapporto tra il mondo degli uomini e quello del divino.

Letteratura e teatro delle ombre a Giava

di Bruno Gentili

Il teatro delle ombre ha costituito per molti secoli una delle espressioni più alte della cultura giavanese, diventandone elemento portante con un valore fortemente identitario. Questo particolare tipo di espressione artistica si è sviluppato con continuità e vivacità nel corso di oltre un millennio, durante il quale ha coagulato attorno a sé diverse tradizioni culturali e differenti visioni religiose, diventando un importante filo conduttore del patrimonio culturale di Giava.

Questa forma di teatro ha infatti attraversato la storia senza mai perdere la sua primaria funzione sociale, culturale e identitaria, arricchendosi ad ogni passaggio tra i diversi periodi storici di contributi sempre nuovi, accolti ed integrati ogni volta senza mai rinnegare e snaturare le esperienze precedenti. Ha svolto quindi una preziosa funzione di accumulo e trasmissione di diverse esperienze culturali e spirituali, elaborate attorno al complesso tema del rapporto tra il mondo degli uomini e quello degli dei, tra la sfera del mondo tangibile e quella del mito e del divino.

Il teatro delle ombre ha giocato un ruolo fondamentale in un continuo fecondo rapporto di scambio tra la letteratura e la scena, che si sono alimentate a vicenda seguendo una dinamica vivace e innovativa, pur operando all’interno di alcune grandi linee guida che hanno ispirato tutta la storia letteraria e teatrale di Giava. È diventato quindi durante i secoli sia motivo ispiratore, sia fruitore fondamentale della produzione letteraria giavanese nei suoi diversi periodi storici, caratterizzati prima dalla lunga esperienza pre-induista e induista, poi dall’arrivo e dal laborioso consolidamento della nuova fede islamica. Diventa quindi necessario gettare uno sguardo sulla storia letteraria di Giava per poter disporre delle basi culturali necessarie per una più consapevole comprensione di questa speciale e irripetibile forma di espressione teatrale.

La letteratura giavanese

La letteratura indonesiana classica, la giavanese in particolare, è stata una delle espressioni letterarie del Sud Est asiatico che si è sviluppata per molti secoli basandosi più sulla continuità e l’integrazione che sull’elisione e la soppressione delle diverse culture che si sono avvicendate nel tempo. Si è strutturata infatti operando sulla complessa stratificazione spirituale che fu costituita prima dalla civiltà pre-induista e induista, poi da quella islamica nelle sue diverse espressioni. Il suo sviluppo, abbastanza graduale e quasi mai animato da forti rivalità, è avvenuto nel corso dei secoli attraverso un processo di lenta osmosi che ha visto le tradizioni, le storie, i miti e le leggende delle culture precedenti integrati almeno in parte tra i valori fondanti delle nuove culture vincenti, un passaggio in cui nulla è stato radicalmente distrutto e nulla totalmente innovato.

Solo in tempi più recenti, dal XIX secolo in poi, è intervenuta ed è diventata sempre più percepibile e diffusa nella società giavanese la presenza della cultura europea.

Una notevole influenza nel percorso di sviluppo di questa letteratura è derivata anche dalla coesistenza e dall’impiego continuativo di diverse lingue parlate e scritte nelle numerose realtà etniche e culturali che hanno da sempre caratterizzato l’intero arcipelago indonesiano.

L’attuale lingua utilizzata, il “Bahasa Indonesia”, non è invece frutto storico della evoluzione e interazione delle lingue antiche più usate, ma è di fatto una particolare versione della moderna lingua malese, in parte modificata e adottata come attuale lingua nazionale, usata anche politicamente dalla metà del ‘900 come uno dei principali elementi identitari e unificanti del paese.

Scegliamo qui di focalizzare l’attenzione sull’esperienza giavanese, sia perché la si può considerare la più antica e ricca, sia perché è stata espressione della maggiore comunità dell’area indonesiana.

La lingua classica giavanese

È importante evidenziare che la lingua classica giavanese ha svolto un ruolo insostituibile e fondamentale nella creazione e sviluppo di questa plurisecolare letteratura.  Questa lingua si è formata attraverso un lungo e articolato processo di integrazione di elementi importanti: di derivazione indiana, sia linguistici, come il sanscrito, sia culturali e religiosi, come il brahmanesimo e il buddhismo; di derivazione islamica, come le lingue e le culture araba e persiana, giunte a Giava attraverso una lunga serie di mediazioni nel corso dell’avanzata dell’Islam da Ovest verso Est.

La lingua giavanese è di fatto la più antica di tutto l’arcipelago ed ha lasciato tracce permanenti negli idiomi di diverse aree confinanti. Fu anche la prima lingua a produrre testi scritti, grazie all’adattamento del sistema di scrittura proveniente dall’India meridionale.

La sua ricchezza semantica e sintattica ha fatto del giavanese classico una lingua “nobile”, dotata di mezzi espressivi estremamente raffinati e diversificati, che hanno costituito il substrato necessario per la produzione di un vasto e ricchissimo patrimonio letterario.

Al momento della sua maggiore evoluzione e influenza in tutta l’area, questa lingua era arrivata ad essere tanto sofisticata e complessa che nei dialoghi e negli scritti erano utilizzati differenti registri linguistici di cortesia, determinati dallo status dei personaggi, dal contesto in cui si sviluppava il discorso e da altre variabili in gioco.

I registri più elevati erano riservati alle persone di rango sociale più alto e, in letteratura, agli dei e alle creature mitiche. Queste figure si esprimevano usando sempre il giavanese “alto” (krama), mentre al polo opposto le persone con ruoli più popolari o ritenuti più volgari potevano usare esclusivamente il giavanese “basso” (ngoko).

Inoltre nella comunicazione che vedeva coinvolte figure con ruoli sociali differenti intervenivano altre variabili legate al mutare dei contesti, per cui il linguaggio doveva essere modulato in funzione del ruolo sociale e livello culturale di chi parlava e di chi ascoltava; del contesto nel quale si collocava e si svolgeva il discorso; dell’argomento o persona che erano oggetto della conversazione. La conoscenza approfondita del giavanese classico era indispensabile per poter comporre opere letterarie, poetiche e teatrali, adeguate ad essere prima accettate, apprezzate e usate nelle corti principesche, in seguito, diffuse ai livelli intermedi della società.

In particolare, i letterati che componevano i poemi destinati al teatro delle ombre di corte, quindi a un’ampia seppur selettiva diffusione, dovevano dimostrare la loro adeguatezza linguistica, oltre ad una piena padronanza di tutte le variabili evocate nelle rappresentazioni.

L’uso di un livello inadeguato della lingua era ritenuto da tutti, in particolare negli ambienti delle corti, come molto sconveniente, indice certo di ignoranza e di grossolanità della propria formazione.

Questo tipo di lingua, così elitaria ed usata per secoli come una sorta di compiaciuta ritualità sociale e relazionale, poteva essere adatta ad una società piuttosto statica, dove i ruoli sociali erano da tempo predefiniti, dove ciascuna persona sapeva collocarsi facilmente al suo posto nella complessa gerarchia sociale e culturale. Alla fine del XIX e ancor più dagli inizi del XX secolo, in una società più moderna e dinamica, la vecchia lingua rivelò presto i suoi limiti di flessibilità e di adeguatezza alle nuove esigenze; si evidenziò così la necessità di crearne una nuova, più snella, semplice e adattabile, la lingua Bahasa Indonesia, perdendo l’infinita e raffinata varietà di sfumature sintattiche e lessicali consentite dalla lingua classica.

La produzione letteraria

Seguendo la tradizione letteraria indiana, i testi giavanesi, soprattutto quelli più antichi, non sempre sono facilmente ascrivibili ad autori ben identificabili. Nel corso delle diverse dinastie regnanti e delle suddivisioni in regni e principati, le numerose corti fecero a gara ad ospitare sapienti, letterati e poeti di diversa provenienza, ai quali commissionarono numerose opere, molto differenziate tra loro, dove l’ispirazione religiosa più rigorosa si accompagnava alla composizione di grandi e complessissimi poemi divini ed epici, che erano spesso letti o cantati nelle corti o usati nelle rappresentazioni teatrali.

La produzione letteraria giavanese può essere comunque distribuita temporalmente in alcune epoche piuttosto definibili, i cui confini coincidono con alcuni profondi cambiamenti storici, religiosi-culturali, economici e politici intervenuti nel corso di un millennio, dal IX al XIX secolo della nostra era. Queste linee di demarcazione hanno segnato confini culturali piuttosto profondi, tali da influenzare in modo molto significativo la letteratura coeva e tutta la produzione culturale.

  • Le grandi epoche di riferimento furono sostanzialmente tre:
    periodo pre-induista e induista (dal 900 al 1550 circa)
  • primo periodo islamico (dal 1550 al 1750 circa)
  • periodo “della rinascita classica” (dal 1750 a fine ‘800)

La letteratura pre-induista e induista, dall’VIII al XVI secolo

I testi più antichi scritti in lingua giavanese giunti integri fino a noi risalgono all’VIII secolo d.C. I testi antichi, scritti in sanscrito, per poter essere comprensibili avevano necessità di essere accompagnati da parafrasi in giavanese. Queste divennero nel tempo sempre più necessarie e importanti per la comprensione dei testi, fino a che il sanscrito venne abbandonato. In questo contesto la poesia lirica vera e propria ebbe una presenza del tutto marginale. Le belle lettere di quel periodo giunte fino a noi sono per la gran parte rappresentate da poemi di carattere narrativo, di tipo epico, storico o romantico, spesso intrecciati tra loro senza soluzione di continuità, oppure con finalità di tipo didattico, quindi esplicitamente educative, moralistiche, religiose. Le espressioni poetiche dei sentimenti erano piuttosto stereotipate, trovando un proprio spazio lirico solamente nelle rappresentazioni simboliche della collettività, non citando quasi mai espressioni individuali. Questa marginalità della lirica nella produzione letteraria influenzata dall’induismo evidenziava la diffusa presenza della cultura corale di tipo arcaico-agrario delle corti principesche, frutto ed espressione di una struttura molto coesa e piuttosto rigida, definita da un ordine cosmico e sacro, dove i diversi ruoli sociali erano stabili nel tempo e le relazioni erano ritualizzate.

Con l’arrivo dell’Islam a Giava, durante il XVI secolo, divenne sempre più egemone una cultura prevalentemente mercantile, individualistica, caratterizzata da una nuova mobilità sociale e quindi da una fluidità prima sconosciuta dei ruoli e delle relazioni tra le persone, in classi che iniziarono ad avere maggiore permeabilità e dinamismo.

Nel corso del tempo dall’VIII secolo in poi si ridusse fortemente il numero degli antichi testi induisti tradotti, mentre crebbe in modo significativo il numero delle nuove opere di cultura propriamente giavanese o integrate con la cultura locale preesistente.

La letteratura giavanese induista e buddhista, e solo in parte anche la successiva rielaborazione islamica, fu sempre strutturalmente e profondamente intrisa di una forte tensione spirituale e religiosa, di una costante e pervasiva presenza del divino, di una visione della realtà dove non era possibile tracciare un confine identificabile tra mondo divino e mondo umano, tra magico e profano, al punto che senza questa immanenza divina nel mondo reale la stessa espressione letteraria non avrebbe avuto più alcun significato né scopo.

Il costante intreccio e la compresenza di dei e miti nella realtà degli uomini costituivano in quel tempo l’asse portante della percezione che la società aveva di sé stessa, del mondo e della vita, di conseguenza la cultura non poteva non esserne fortemente impregnata.

Questa letteratura era intimamente percorsa da una visione sacrale del cosmo, della vita e del mondo legata al continuativo intervento sensibile e visibile di esseri sovrumani, quindi di dei, semidei, creature mitiche e demoniache, nella vita degli uomini e della natura.

Il concetto fondamentale di un ordine cosmico si rispecchiava in un ordine sociale basato su divisioni ritualizzate, una visione in buona parte antecedente all’influsso della stessa cultura indiana, facendo emergere la preesistenza di archetipi culturali locali ancora più antichi, che si potevano intravedere osservando la costante presenza di figure retoriche e mitiche tipicamente locali, non riscontrabili nella tradizione indiana. Dal X fino al XIX secolo, infatti, soprattutto nei numerosi ed elaboratissimi testi dedicati al teatro delle ombre, possiamo osservare la costante e diffusa presenza di miti e di figure semidivine, in buona parte estranee e precedenti alla tradizione induista, ma da questa fatte proprie e coinvolte nella costruzione di una complessa e stratificata Weltanshauung giavanese, che mantenne nei secoli un carattere assolutamente unico tra i paesi di fede islamica.

Le grandi epopee indiane fornirono nei primi secoli in esame il vastissimo materiale di base necessario per la creazione di numerose epopee giavanesi, che diffondendosi e differenziandosi nel tempo divennero così tipicizzate da non potervi riconoscere con facilità le antiche radici induiste e, solo in parte, buddhiste.

La metrica inizialmente indiana ebbe una lenta evoluzione verso una peculiare metrica giavanese, che giunse a maturità nel periodo islamico, grazie alle modificazioni intervenute nella lingua stessa.

In sintesi la produzione letteraria antica può essere suddivisa in due filoni di riferimento: i grandi poemi denominati “kakawin” e le opere in prosa, denominate “parwa”, entrambi frutto di un lungo ed articolato processo di integrazione e assimilazione tra l’antica letteratura indiana e le tradizioni culturali autoctone.

I kakawin

I poemi presero il nome di kakawin, da kawi e kawya che in sanscrito significano rispettivamente poeta e arte poetica.

I poemi kakawin erano recitati o cantati in pubblico in sanscrito, strofa per strofa, accompagnati da commenti in giavanese corrente, un idioma piuttosto ammanierato ed elegante. Per tutto il periodo preislamico i kakawin continuarono comunque ad essere cantati e commentati nelle corti di Giava da una apposita figura di lettore-commentatore, necessario per arrivare a una piena e consapevole comprensione da parte del pubblico. Questa modalità di fruizione da un lato rafforzava una percezione collettiva del carattere sacro degli antichi testi, dall’altro consentiva a tutti una buona comprensione di storie che in altro modo sarebbero diventate incomprensibili.

Citando alcune opere della immensa produzione letteraria, un importante kakawin di ispirazione induista fu il poema agiografico Smaradahana composto dal grande letterato empu Dharmaja come elogio del re e della regina di Kediri, un regno centro-orientale di Giava, che durò dal 1042 al 1222.

Osserviamo ora due kakawin distinti tra loro dal fatto che furono scritti in tempi diversi, a quasi due secoli di distanza l’uno dall’altro, ma influenzarono la letteratura e i testi teatrali dei secoli successivi.

Il primo dei due fu il Rāmāyaṇa, scritto nel IX secolo, ispirato al testo originale indiano scritto in sanscrito. Questo kakawin racconta la notissima storia del principe Rama, un importante avatara o “discesa” del dio Vishnu sulla terra.

Il Rāmāyaṇa giavanese differisce notevolmente dall’originale indù, infatti il testo indiano di riferimento fu quello scritto in sanscrito, il Rāvaṇavadha o Bhaṭṭi-kāvya, composto nel VII secolo.

Il secondo kakawin, tappa storica per la comprensione dei testi del teatro delle ombre, fu il Bharata Yuddha, che parlava della lotta condotta dai Pandawa contro i Kurawa (Pāṇḍava e Kaurava in sanscrito). Questo testo derivava dal Mahābhārata il fondamentale poema indiano.

Con queste opere ci si avvicinò al compimento del processo di integrazione delle antiche storie indiane con la cultura ancestrale dell’isola, diventando a pieno titolo storie giavanesi. Ne derivò che gli eroi fondamentali dell’opera, sia di evidente origine indiana, sia di tradizione locale, vennero identificati come figure pienamente giavanesi. Tra le più importanti figure ricordiamo Arjuna e i Pandawa.

Un altro importante kakawin composto sulle epopee più antiche, ma totalmente giavanese, fu il poema Arjuna Wiwaha, cioè “Le nozze di Arjuna”, scritto nel XI secolo da empu Kanwa, per la corte del re Erlangga, sovrano di un regno posto nell’area orientale di Giava.

Ci sono inoltre pervenuti oltre 20 kakawin completi dei commentari, composti per varie corti reali (kraton) tra il XII e il XV secolo.

Un altro kakawin di grande importanza fu il Ghatotkacasraya, scritto da empu Punuluh in tarda età, sempre per il re di Kediri. Il racconto si svolge intorno alla storia del giovane Abhimanyu figlio di Arjuna, che si innamora di una fanciulla divina, ma viene ostacolato da Baladewa. Quest’opera segnò un momento di passaggio importante, perché si affacciarono per la prima volta nelle lettere giavanesi dei personaggi nuovi, denominati panakawan, figure di buffoni che assunsero un ruolo di primaria importanza per i futuri testi teatrali. I panakawan avevano un ruolo assai articolato e multiforme, che possiamo sintetizzare in una sorta di goffo, sgraziato, ma saggio-ironico “giullare di corte” di ispirazione magico sacra, di depositario della saggezza popolare, di accompagnatore dei principi e degli eroi, non dotato di poteri propri. Il loro ruolo aveva la funzione importante di evocatori e garanti dell’ordine cosmico in cui si situavano sia il re e la corte, sia gli esseri mitici e divini che interagivano nelle storie.

Queste nuove figure ebbero fortuna soprattutto nei poemi usati nel teatro delle ombre, sia di corte che popolare, e furono stabilmente presenti nella letteratura giavanese fino a tutto il XIX secolo, anche in contesti culturali ormai molto cambiati a seguito dell’arrivo dell’Islam.

La debolezza politica del XIV secolo e l’iniziale crisi delle classi dirigenti portò a un lento inarrestabile declino dell’ordine religioso, culturale e morale del mondo induista, scalzato dall’avanzare delle nuove istanze islamiche, a cui seguì anche un forte rallentamento nella produzione letteraria e culturale.

Durante il regno Majapahit la produzione letteraria riprese vitalità e rifiorirono la cultura e l’arte in tutta l’area. Un grande poeta, empu Tantular, scrisse due significativi kakawin:

  •  l’ Arjuna Wijaya (Arjuna vittorioso), un poema epico che riprende l’ultimo libro del Rāmāyaṇa, dove viene raccontata la lotta dei tre eroi Arjuna, e Parasurama;
  • Il Sutasoma, una storia di origini buddhiste, che racconta la vicenda di un eroe (un Bodhisattva incarnato) che si offre in sacrificio a un demone potente che però alla fine si converte.

Un altro letterato del tempo fu empu Tanakung, autore con un carattere e uno stile che in Occidente potremmo definire “romantico”, che compose i due kakawin Wrtta Sancaya e Lubdhaka, dove si evocano gli intrecci di storie di amanti perduti che si cercano oppure di premi celesti riservati a giovani eroi virtuosi.

I parwa

Oltre ai kakawin venne prodotta una vasta letteratura in prosa, le cui opere vennero denominate parwa, che evocavano temi storico-mitici, con molti adattamenti di ampie parti dell’antico poema Mahābhārata.

I testi indiani vennero impiegati anche per assemblare le numerose epopee, drammi e storie utilizzate per il teatro giavanese delle ombre. La grande produzione di testi scritti per questo teatro fu l’esito di un lungo e articolato processo di ibridazione culturale, arricchito anche da nuove invenzioni letterarie. Tra gli adattamenti più conosciuti abbiamo la versione prosastica di un’opera importante come l’Adi parwa, il primo dei diciotto libri del Mahābhārata. Allo stesso modo molti altri parwa furono il risultato di rielaborazioni e adattamenti degli originali purana indiani, le “Antiche storie”.

Il vecchio mondo induista durante tutto il XV secolo entrò in una crisi profonda e senza ritorno, allentando molti vincoli culturali e sociali che nei secoli precedenti lo avevano consolidato.

L’impero induista Majapahit, sorto intorno alla seconda metà del XIII secolo, dopo alterne vicende e una lenta decadenza, si spense definitivamente nella prima metà del XVI secolo, quando cadde il suo ultimo baluardo orientale davanti alla lenta invasione da parte di regni islamici dell’ovest, iniziata ormai due secoli prima.

Questo momento storico segnò la fine del lungo periodo induista e l’inizio di una nuova epoca con l’avvento definitivo dell’islamismo. Fede e cultura islamica si diffusero sull’isola con relativa lentezza, infatti conquistarono prima le classi mercantili della costa e solo successivamente e con minore rapidità l’aristocrazia ex induista del centro e dell’est dell’isola. La nuova fede trovò una maggiore viscosità culturale nell’area centrale di Giava, soprattutto presso le élite e le corti principesche di tradizione induista, dove sussisteva una cultura sedimentata molto complessa, che opponeva maggiore resistenza ai nuovi valori in arrivo.

A partire dalla metà del XVI secolo la cultura giavanese visse quindi un laborioso pluridecennale periodo di transizione all’Islam, sia da un punto di vista strettamente religioso che più ampiamente culturale, un percorso che proseguirà poi attraverso varie fasi fino alla fine del XIX secolo. In questo nuovo periodo la cultura indonesiana in generale, e giavanese in particolare, conobbe una forma di sincretismo culturale quasi sconosciuto o assai poco praticato nelle altre aree dell’Asia conquistate e sottomesse dall’Islam.

A Giava la nuova fede sostituì completamente quella induista, ma l’enorme patrimonio culturale precedente, con i suoi numerosi e fascinosi miti ed eroi, le sue ricche ed elaborate forme letterarie e teatrali, i suoi valori e gusti estetici furono certamente desacralizzati, ma non per questo distrutti o ignorati dai vincitori.

La letteratura giavanese dal XVI al XIX secolo

Primo periodo islamico

Finora abbiamo osservato l’articolato e complesso sviluppo della letteratura giavanese avvenuto nel periodo influenzato dalla cultura indiana, lungo un arco di tempo di circa ottocento anni. Nei due secoli tra la seconda metà del XVI e la metà del XVIII secolo la precedente letteratura accolse e fu nello stesso tempo molto influenzata dall’Islam e dai suoi nuovi valori spirituali e ideali, che pervasero nel giro di alcuni decenni tutta la società giavanese.

In questo periodo avvenne un complesso processo di integrazione che trasmise alla nascente civiltà una mitologia e una cultura antichissima, abitata da miti, eroi, leggende, tradizioni, valori etici, modelli ideali, oltre che stili letterari e modalità espressive frutto di secoli di sperimentazione e innovazione. Non sarebbe esatto affermare in modo netto che l’integrazione avvenne attraverso una pura trasposizione di modelli dalla vecchia alla nuova cultura; si può dare invece per consolidato che il processo avvenne senza che si dovessero introdurre forti stravolgimenti dei valori del passato per poterli adattare alla nuova realtà storica.

In effetti fu sufficiente la loro desacralizzazione e la loro trasposizione nel mondo del mito, del magico, del leggendario, per salvaguardarne di fatto i contenuti, che erano da molti secoli espressione di tradizioni antiche e radicate, intimamente vissute e partecipate da tutta la popolazione, in particolare dalle classi dirigenti nobiliari, che attraverso il loro ruolo sociale e le loro committenze letterarie e artistiche influenzavano fortemente il consenso e la cultura collettiva.

La salvaguardia di quella vitalità culturale dalle radici così antiche permise e facilitò tra l’altro un passaggio non traumatico anche sotto il profilo della stabilità sociale.

Il nuovo periodo letterario islamico, sviluppatosi nei due secoli tra la metà del XVI e la metà del XVIII secolo, oggi viene spesso denominato come “letteratura del Pasisir”. Il termine è traducibile come costa, linea costiera, limite, confine tra terra e mare; viene usato per indicare il luogo geografico e l’ambiente umano-sociale in cui questa nuova produzione letteraria ebbe le sue origini e il suo sviluppo, vale a dire le aree costiere di Giava, dove si trovavano le città mercantili, dove si concentravano i gruppi sociali più eterogenei e dediti ai commerci, soggetti sociali che oggi usando un termine occidentale definiremmo “borghesi”, proiettati culturalmente verso il mondo circostante, aperti alle nuove culture (e alla nuova fede), quindi in centri dove l’influenza della nobiltà agraria erano di fatto minoritaria.

La nuova classe dirigente del primo periodo islamico si formò proprio appoggiandosi su queste classi sociali in forte ascesa. Diversi invece furono i tempi e le modalità di integrazione da parte dei centri feudali dell’interno, sedi dei grandi principati, dei maggiori gruppi intellettuali e della cultura più alta, che inevitabilmente opposero una maggiore resistenza al cambiamento e che costituirono una sorta di potente ammortizzatore culturale, che accolse la nuova fede senza perdere il proprio ruolo, caratterizzando quel lento processo integrazione di culture che fu peculiare di Giava.

L’Islam giavanese non è da intendere come un fenomeno unitario e monolitico, perché ebbe al proprio interno delle correnti spirituali importanti e molto differenziate tra loro, che si possono ricondurre a tre indirizzi principali: quello con un orientamento fortemente mistico, quello più ortodosso legalistico e quello definibile più modernista, che si sviluppò però in un’epoca successiva.

La corrente religiosa mistica derivava dal sufismo, seguendo una tradizione che già aveva forti radici in India, paese dal quale ebbe origine l’invasione islamica. A questa corrente si indirizzarono molti nuovi convertiti, soprattutto giovani studiosi, ma presto nacque una sorta di reazione avversa da parte dell’ala più ortodossa dell’Islam giavanese, un fenomeno già conosciuto anche nell’isola di Sumatra.

Nello stesso periodo si diffuse l’uso dei suluk, ovvero dei testi composti da liriche di forte ispirazione religiosa, spesso accompagnati da canti e danze, che furono espressione delle comunità mistiche mussulmane delle aree settentrionali dell’isola, in particolare nell’ambito del sultanato di Cirebon. Questi testi nacquero sotto forma di poemetti brevi, scritti in metrica definita macapat, con una evidente finalità educativa-formativa, dove la figura simbolica del maestro-padre illustrava all’allievo-figlio vari concetti islamici attraverso un susseguirsi di domande e risposte, scritte in forma poetica.

Questi scritti nel tempo divennero sempre più articolati, giungendo a composizioni assai eleganti e sofisticate, molto amate dai giavanesi. 

Vennero scritti anche numerosi “romanzi” che si alimentavano di numerose storie precedenti di antica tradizione giavanese e diedero vita a loro volta a complesse trame utilizzate per il teatro delle ombre.

Periodo del “rinascimento” culturale

Intorno alla metà del ‘700 si vide la nascita di una vera e propria nuova era culturale e letteraria, definita “Rinascimento”, che durò per tutta la seconda parte del XVIII e l’intero XIX secolo.

Nel 1755 un avvenimento storico importante modificò la situazione prima politica e poi di conseguenza economico-sociale di Giava: gli olandesi forzarono militarmente l’equilibrio socio-politico dell’area e concordarono la spartizione dell’antico regno di Mataram nei due principati di Surakarta e Yogyakarta. Questo fatto fu fondamentale, perché modificò gli equilibri di potere e gli indirizzi culturali di tutta l’enorme area. La produzione culturale passò rapidamente dai ceti borghesi della costa alle due grandi corti regali, ancora intrise di pensiero e di spiritualità di tipo induista, dove erano ancora letti, compresi e ammirati gli antichi kakawin e la letteratura di tipo preislamico, che in questo modo ritrovarono vitalità attraverso una delicata e complessa rielaborazione. Il “rinascimento” fu quindi opera di una classe aristocratica che rinnovò il proprio controllo sulla produzione e fruizione culturale, portatrice degli antichi valori preislamici, solo parzialmente messi in ombra da una islamizzazione più superficiale che profonda. Nei kraton principeschi infatti i valori dell’Islam erano stati elaborati sovrapponendoli a una visione del mondo ancora profondamente radicata sui valori precedenti.

Nonostante questo evidente richiamo alla cultura antica, le due corti principali intrapresero un percorso culturale che, pur valorizzando la letteratura classica, introdusse in modo stabile l’uso di evidenziare i nomi degli autori di ogni componimento, rafforzando quindi una cultura più legata all’individuo creatore e alla sua arte personale invece della precedente concezione della “comunità creatrice” e portatrice di un patrimonio culturale anonimo.

I maggiori autori del momento furono due letterati di Surakarta, padre e figlio, Yasadipura I e Yasadipura II, che operarono in quella corte.

I sultani più attivi in questa fase di rinascimento furono i tre Paku Buwana (titolo nobiliare regale, che significa “Chiodo del mondo”): Paku Buwana III (1749-1789), Paku Buwana IV (1789-1820) e Paku Buwana V (1820-1823).

I diversi letterati in questa fase vennero denominati “pujangga”. La loro produzione in un primo tempo si focalizzò su temi didattico-filosofici. I pujangga dei due kraton di Yogyakarta e Surakarta si dedicarono anche alla trascrizione e reinterpretazione di molti poemi e storie antiche, scritti originariamente in giavanese classico e diventati ormai praticamente incomprensibili per il pubblico. Oltre a questa ripresa dell’antica letteratura ne produssero di nuova, impiegando una diversa versione del giavanese, in parte anche parafrasando antichi kakawin e impiegando anche versi macapat per reinterpretare storie o intrecciare e ibridare tra loro vecchi miti e leggende, che vissero una sorta di metamorfosi letteraria. In questo contesto il Rāmāyaṇa venne riscritto con il nuovo nome di Sèrat Rama.

Uno degli aspetti più interessanti di questa fase fu la rivalutazione complessiva e la nobilitazione della letteratura dedicata al teatro delle ombre, tanto da dare vita a un suo radicale rinnovamento, basato sempre e comunque su un impianto culturale-mitologico antichissimo.

In particolare bisogna riconoscere che il grande apporto della letteratura del “rinascimento”, oltre alla creazione di nuovi testi, fu quello di rendere comprensibile, sistematizzare e mettere per iscritto in modo piuttosto stabile l’enorme produzione letteraria precedente, spessissimo frammentata in diverse versioni e altrettanto frequentemente riportata oralmente tra le generazioni dei gestori del teatro. I testi che più furono al centro di questo lavoro furono quelli del Rāmāyaṇa e del Mahābhārata, integrati con altre storie del ciclo di Amir Hamza e testi creati appositamente per il teatro wayang, ancora più specifici per il wayang wong, i cui attori erano uomini.

Gli autori delle diverse opere furono sia i pujangga, tra cui il famoso Sindu Sastra, che scrisse una versione dell’Arjuna Sasra Bahu, sia addirittura alcuni componenti della corte o della stessa famiglia reale, il più famoso dei quali fu il principe Kusumadilaga di Surakarta.

Solo negli ultimi decenni del XIX secolo iniziarono a emergere alcuni scrittori che possiamo definire “moderni”, sulla falsariga dei modelli letterari europei contemporanei.

Il “Teatro delle ombre” a Giava

In questo articolato contesto storico letterario si è sviluppato nel corso dei secoli il teatro delle ombre, già ben documentato a Giava e Bali fin dal VII secolo d.C. Questa fu una forma di teatro in parte autoctona e in parte derivata prima dalla cultura indiana e poi islamica.

Il wayang kulit è un’esperienza teatrale unica e complessa, fonte di ispirazione e fruitrice di una vasta produzione letteraria, pertanto è una forma di teatro non destinata a un pubblico infantile. Essa infatti contiene infiniti riferimenti letterari, artistici, storici, sacri, epici, mitici, magici e divinatori, diventando una sorta di rito, “officiato” da una figura unica nel mondo del teatro, il dalang, una sorta di sacerdote-sciamano, che anima e gestisce lo spazio scenico, dando vita alle figure dei diversi personaggi e recitando antichi testi.

Il teatro di Giava ha assunto da oltre mille anni un ruolo fondamentale nella formazione dell’ethos e del sentire comune dei giavanesi, tramandando e facendo vivere un complesso sistema di valori, di culti e di visioni religiose che non hanno solo valenze metafisiche, ma anche e direi soprattutto etico-morali.

Il teatro delle ombre è nello stesso tempo:

  • spettacolo e rito ad alto contenuto magico-sciamanico-religioso,
  • rappresentazione di antiche leggende e di miti comuni,
  • fonte di emozioni e di apprendimento collettivo,
  • luogo consolidato di festa e di aggregazione sociale,
  • spazio di condivisione dei valori identitari della comunità.

Si osservi quante volte ricorrono in questa descrizione del teatro delle ombre i termini “valori”, “identità”, “collettivo” e “sociale/comunità”. Infatti in questa società l’individuo isolato dal suo contesto non aveva molto significato, la singola persona trovava un senso di sé e una propria identità vivendo inserita pienamente nella sua comunità e facendo propri i valori etici e religiosi della società di riferimento.

Nel periodo preislamico i primi wayang erano usati in diverse cerimonie e rituali sciamanici dove le figure, sotto forma di “ombra”, diventavano rappresentazione simbolica degli antenati del villaggio, dai quali la comunità traeva saggezza e consigli attraverso la mediazione del medium-conduttore (il dalang).

Come per il teatro greco, il wayang kulit accompagnava la comunità e i suoi momenti simbolici più significativi (funerali, matrimoni, feste) diventando uno snodo di partecipazione collettiva e di condivisione di sentimenti comuni, avendo anche una fondamentale funzione didattica, educativa e formativa dei singoli e della stessa comunità.

Il teatro giavanese non cancellava le figure degli antenati mitici della comunità, ma le re-impiegava come voce del popolo stesso, come personaggi portatori di un profondo sentimento collettivo.

La contaminazione culturale tra antico mondo induista e nuovo mondo islamico inserì nel teatro delle ombre un nuovo elemento destabilizzante e innovativo: i panakawan, ovvero Semar, Petruk, Gareng e Barong, buffoni e servitori dell’eroe, che dicevano nel teatro ciò che il popolo non poteva dire nella vita sociale contro i potenti e il costume collettivo. I buffoni potevano permettersi di essere ironici e di irridere le figure del potere, perché il peso e l’incisività di ciò che dicevano erano compensati dalle loro figure ridicole.

Le rappresentazioni teatrali fino alla metà del ‘700, sia nei villaggi che a corte, erano un momento entusiasmante ed allegro di forte aggregazione sociale e di svelamento di sentimenti comuni.

Lo spettacolo-rito era gestito completamente dal dalang intorno a un canovaccio predefinito, arricchito a suo piacimento e in modo autonomo con intermezzi e assemblaggi di parti di storie diverse, inserendo anche momenti di aspra critica o di dileggio del potere o dei costumi collettivi.

Dopo la metà del ‘700, con lo spostamento del potere economico-politico e della produzione culturale dai centri borghesi costieri alle corti dei sultani, si imposero degli interventi correttivi sul teatro delle ombre. Divenne indispensabile politicamente non essere facili oggetti di critica-satira, indirizzando quindi la scelta delle storie su tematiche più consolidate e tradizionali. Inoltre la precedente trasmissione orale delle opere/storie tra i diversi dalang era arrivata a distorsioni dei testi non più ritenute accettabili dalla nuova classe dirigente nobiliare, sia per ragioni religiose che di opportunità politica.

Le corti depotenziarono la vitalità critica del teatro, rivedendone tempi, ritmi, spazi, ruoli e modalità, con una forte limitazione del ruolo dei panakawan, esaltando il ruolo di alcune figure simboliche nei testi e nelle rappresentazioni (re, demoni, saggi, eroi, ecc.). Si volle sottolineare la natura mitica e divina della regalità, evidenziando il ruolo il wayang kulit doveva avere nella complessa comunicazione tra potere e popolo.

I diversi tipi di teatro a Giava

Il teatro giavanese si suddivide in varie tipologie, differenziate tra loro dal tipo di “attore” impiegato nella rappresentazione:

  • il wayang kulit, rappresentato solo di notte con figure di cuoio traforato e decorato;
  • il wayang golèk, che impiega burattini tridimensionali in legno e tessuto, un tipo di teatro molto popolare e di villaggio;
  • il wayang krucil, variante del golèk, con burattini bidimensionali;
  • il wayang wong, rappresentato da uomini attori, che indossano maschere e abiti sontuosi, messo in scena nelle corti principesche;
  • il wayang bèbèr, realizzato con disegni e gustose vignette dipinte su un lungo rotolo di tela, che viene fatto scorrere come se fosse uno schermo continuo (una sorta di antenato del cinema).

Esistono inoltre diverse categorie di teatro kulit, golèk, wong, che si differenziano tra loro in funzione sia dell’argomento trattato, sia dei soggetti rappresentati in scena, collocati in una gerarchia sacra. Tre esempi tra i più significativi:

  • il wayang màdya, di gusto più popolare;
  • il wayang purwa, che tratta dello scontro mitico tra gli dei e i demoni, tra le raffigurazioni del Bene e del Male;
  • il wayang gèdòg, che tratta delle imprese dei re, quindi di figure più o meno mitizzate, poste tra cielo e terra.

In questa presentazione ci focalizziamo sul wayang kulit, nelle due varianti purwa e gèdog. La traduzione letterale di wayang kulit è “ombra di cuoio”, infatti:

  • wayang significa ombra, dall’unione di due termini del giavanese antico: wong = uomo, yang = fantasma,
  • kulit è un termine che indica il cuoio di bufalo d’acqua.

Nell’isola induista di Bali le occasioni di rappresentazione del teatro delle ombre sono sempre collegate a riti sacri, i vari yadnya (yajña in sanscrito). Nell’islamica Giava il teatro delle ombre è da secoli uno spettacolo laico, che però conserva valenze etico-didattiche, ma anche magiche.

Intorno alla figura del dalang, ai testi delle “storie”, a tutto lo spettacolo del wayang si conserva a Giava un alone magico-sciamanico la cui presenza ci può stupire se osservata in una cultura islamizzata.

Il wayang kulit è una complessa rappresentazione rituale collettiva, è il racconto di un grandioso e affascinante scontro epico tra Bene e Male, tra eroi puri e demoni malvagi; è quindi un teatro che evoca fatti epici, che presenta la commedia ironica dei panakawan, ma è anche un vero rito magico, che richiede quindi una grande preparazione spirituale in colui che lo presenta e lo gestisce. Gli spettatori e la comunità, attraverso le storie di dei e di demoni, di eroi e di principesse, di maghi e di buffoni, ritrovano le proprie radici culturali, i propri sogni, i propri eroi, anche la propria vita quotidiana, i propri sentimenti ed aspirazioni, i momenti comici e difficili della vita propria e degli altri, gli elementi fondanti della propria cultura e civiltà.

La figura e il ruolo del dalang

Il dalang è il burattinaio-regista-narratore-sciamano-artista che sa gestire con piena consapevolezza e padronanza questo rito-spettacolo.

Il dalang deve avere studiato e sviluppato l’arte della parola e del canto in pubblico, quindi egli deve essere maestro nell’arte di:

  • gedeng cioè l’arte del canto e della recitazione;
  • bahasa cioè il linguaggio giavanese, modulato in funzione dello status dei personaggi in scena e del pubblico presente;
  • ompak-ompakan cioè l’arte della retorica, dell’iperbole.

Il dalang è la memoria storica vivente del teatro delle ombre, ne conosce a memoria moltissime opere, deve avere piena padronanza del tambo, cioè del complesso patrimonio dei miti, delle figure e delle storie raccolte nella vastissima letteratura epica giavanese e, oltre a conoscerle a fondo, egli deve saper scomporre e ricomporre le storie, come una sorta di puzzle, in funzione degli avvenimenti da festeggiare, delle attese del pubblico, della temperie culturale del momento.

I testi delle storie sono scritti da secoli, ma esiste una enorme quantità di informazioni da apprendere sulle vicende e i personaggi, trasmesse verbalmente da ciascun maestro all’allievo; il dalang deve essere quindi un vero e proprio erudito, storico dell’oralità e della cultura. Egli deve saper intrecciare l’enorme patrimonio dell’epos dell’antico teatro indiano con la complessa e articolata mitologia locale, con la cultura del momento ed i fatti della vita quotidiana.

Nota importante: il dalang, pur potendo rielaborare la struttura dei poemi, non può in alcun modo modificare la “mappa interiore”, cioè il filo conduttore spirituale di ogni storia, che è intoccabile e “sacro”.

Gli “attrezzi” da lavoro del dalang: wayang e struttura scenica

Il dalang a volte è proprietario dell’intero set di wayang, ma spesso questi set di figure sono di proprietà dei grandi committenti che ordinano le rappresentazioni in occasione di speciali solennità o per dare lustro particolare alla propria corte e casata.

I grandi kraton di Yogyakarta e Surakarta, ma anche kraton minori come ad esempio quello di Kedu, uno dei più raffinati culturalmente, hanno sempre avuto diverse collezioni prestigiose.

La struttura della scena necessaria al dalang viene preparata montando un grande schermo di garza bianca (detto kelir), sotto il quale viene posizionato un tronco di banano, un legno tenero utile per potervi infilare i bastoni dei diversi wayang per la rappresentazione.

Al centro dello spazio della scena si siede il dalang, ai cui fianchi vengono poste delle lampade e le due casse contenenti il set di figure.

Alle spalle del dalang viene collocata l’orchestra di timpani (gamelan).

Un’assoluta novità rispetto al teatro occidentale consiste nella distribuzione del pubblico, diviso in due gruppi distinti per generi:

  • gli uomini si siedono alle spalle del dalang, quindi vedono dal vero le figure di cuoio, con i loro colori, ma non possono vederne i trafori, quindi le ombre (riferimento uomo = sole);
  • le donne si siedono dall’altro lato dello schermo, quindi non vedono dal vivo i colori delle figure, ma possono vederne le sagome, i meravigliosi trafori e le ombre (riferimento donna = luna).

Fig.1 – Pianta dello spazio di rappresentazione

In questo modo i wayang ci dicono una cosa importante: nessun individuo, uomo o donna, può singolarmente avere la visione completa del “mondo” e della verità. Solo l’unione dei “diversi tra loro” (simbolicamente uomo e donna), quindi solo la messa in comune delle esperienze, consente di avere una visione completa ed esaustiva.

Lo spettacolo

Fin dal mattino il dalang si concentra sulla performance, recitando per ore alcune formule sacre e mantra.

Lo spettacolo inizia dopo il tramonto, verso le 21,00, quando il buio esterno consente l’illuminazione delle figure e la proiezione delle loro “ombre” sullo schermo di garza. Mezz’ora prima dell’inizio dello spettacolo l’orchestra del gamelan, di solito composta da una ventina di elementi, suona il talu, una lenta melodia di introduzione al lakon.

Fig. 2 – Gamelan del kraton di Kedu – 1911

Lo spettacolo non è percepito come una dualità, composta da: un testo a sé stante, fissato a priori, ripreso da un libro; una sua messa in scena ad opera di un addetto ai lavori.

In realtà il testo è uno strumento abbastanza flessibile, non fisso, quindi viene usato il termine lakon per definire una unione intima e indissolubile tra la storia raccontata (il testo del dramma) e la messa in scena vera e propria, che non possono vivere separati tra loro, ma acquisiscono vita e senso solo se fusi insieme da quello specifico dalang per quella particolare serata.

Fig. 3 – Dalang seduto davanti alle figure – 1890 circa

Il lakon viene classificato in tre varianti, in funzione dei temi trattati:

  • lakon pokok = tronco, per le storie del Rāmāyaṇa e Mahābhārata;
  • lakon carangan = ramo, per le storie riferite ai pokok;
  • lakon sempalan = ramo spezzato, per le storie senza relazione con le storie più antiche, quindi più recenti e solo locali.

Ad un certo punto alle 21,00 il dalang bussa per cinque volte su una delle casse che contengono le figure, il brusio della gente si spegne, il dalang agita nell’aria più volte il gunungan (o kekayon), misteriosa figura sacra che evoca le potenze ultraterrene, mentre l’orchestra di timpani (gamelan) inizia a suonare una lenta musica. Questa fase iniziale è fondamentale per la buona riuscita della rappresentazione.

Fig.4 – Gunungan Gapuran (Kekayon) – Kraton di Surakarta. Creato dall’artista di corte Kicerno Penatas nel 1850-60 circa. “Ombra” destinata al pubblico femminile

Agitando il kekayon il dalang recita i suoi personali mantra più potenti e misteriosi, cantati in antico giavanese:

che il mio corpo sia forte come le montagne e la mia mente fluida e leggera come l’acqua

coloro che assistono al Mistero siano forti nel cuore e compassionevoli nella mente, come lo è Dio dall’eternità

gli sciamani e i demoni della notte si allontanino da questo luogo, ora divenuto sacra terra per la discesa del Dio

li sfido a muovere anche un solo ciglio dei loro occhi nefasti, perché il bagliore della folgore li colpirà e li sprofonderà negli inferi

all’aurora i demoni evocati mi supplicheranno di terminare perché temeranno di accecarsi alla luce sacra del sole…”

Solo al termine della recita dei lunghi e complessi mantra può iniziare lo spettacolo, il lakon, chesolitamente è molto lungo, dura infatti intorno alle 9 ore, quindi tutta la notte, per sfruttare il buio.

L’intero lakon è suddiviso in tre tempi, chiamati patet:

  •  patet nem : inizia alle 21 e termina a mezzanotte;
  • patet sanga : dalla mezzanotte alle 3 del mattino;
  • patet manyura : dalle 3 del mattino fino all’aurora.

Al suono della melodia del patet nem, si apre la prima scena con un jejer, cioè l’udienza solenne tenuta dal re nella sala del trono.

Il patet nem si sviluppa in un susseguirsi di avvenimenti e viene presentato dal dalang, articolandolo in due diverse fasi:

1) lo svolgimento della storia vera e propria, sempre recitato in lingua giavanese antica, composto da:

  • il junturan, una descrizione poetica dei luoghi e delle persone, con iperbolici elogi al sovrano e agli dei;
  • il canto elegante del suluk, un testo che descrive lo stato d’animo del sovrano e della corte;
  • il ginem, consistente nei dialoghi tra i diversi personaggi, variati ogni volta dal dalang in funzione del contesto e della finalità del lakon di quella serata;
  • il commento, definito cariyos, dei diversi avvenimenti è sempre recitato in prosa in lingua più comune, moderna, per permettere a tutti una migliore comprensione degli avvenimenti.

Verso mezzanotte termina il patet nem, cioè il primo tempo, ed inizia il patet sanga, cioè il secondo tempo, che durerà fino alle 3 di notte.

Questa parte incomincia con una scena fondamentale: il gara-gara, che si traduce letteralmente in “sconvolgimento delle cose naturali”.

Il dalang scandisce le singole parole e le frasi ad alta voce, con forza descrive una sorta di tsunami che sconvolge la terra e il cielo, con terremoti, vulcani in eruzione, maremoti, invasioni di serpenti, mentre gli uomini chiedono protezione ai guru e ai re, che però non hanno più potere. Persino la reggia degli dei è scossa e agitata dal gara-gara.

Quando la tensione del gara-gara raggiunge il culmine, la storia si movimenta con l’arrivo dei buffoni, i quattro panakawan.

Questo è lo spazio libero che il dalang ha a disposizione per introdurre nello schema rigido delle storie un elemento di critica, di dileggio, che colpisce il potere del re e della corte stessa, la banalità dei nemici, dei demoni e del Male, ma soprattutto evidenzia i difetti e le numerose mancanze dell’uomo e della società di questo momento. In tale modo nessun ruolo si salva dal ridicolo e l’equilibrio dell’anima e della società viene ricomposto.

Lungo tutto il lakon il dalang deve saper tenere viva la tensione del racconto e l’attenzione della gente, deve saper gestire le attese del pubblico con scene comiche brevi, ma efficaci. Il pubblico deve restare sempre come in attesa degli avvenimenti, non deve mai riuscire a prevedere se e quando riderà o si spaventerà o si commuoverà.

Al colmo delle risate e delle scene buffe, il dalang mette in scena l’eroe, il coraggioso, l’essere dal cuore puro, che prega e si consiglia con un eremita per diventare forte e combattere contro nemici e demoni. Spesso nel viaggio l’eroe combatte contro molti demoni e orchi feroci e generali nemici, superando enormi ostacoli.

In questa parte il dalang offre prova di grande destrezza nel muovere le numerose figure di cuoio con rapidità e precisione, dando vita alle animate scene del perang kembang, cioè la “battaglia fiorita”.

Fig.5 – Scena con le “ombre” vista dal lato delle donne

Il lakon continua con il patet manyura (il terzo tempo) durante il quale l’eroe sa di dover affrontare grandi pericoli e si consiglia con un santo eremita (jejer pandita) per ottenere la forza e l’illuminazione necessarie a procedere con determinazione contro il nemico. Nella folta e minacciosa foresta l’eroe combatte contro demoni, orchi ed eserciti nemici (adegan wana), ma riceve anche molti consigli da Semar, uno dei panakawan, che mette in luce la saggezza del popolo. A questo seguono due grandi cruente battaglie (perang ageng), al cui termine gli eroi vittoriosi ringraziano gli dei (jejer tanceb kayon).

Il filo conduttore delle “storie” presentate consiste in un succedersi di fasi piuttosto rigide, ripetute senza sostanziali variazioni:

  • una lotta contro re nemici o potenze demoniache per salvare una principessa rapita, già promessa sposa del re;
  • la necessità di partire alla ricerca di un oggetto o di una essenza magica necessari a riconquistare il bene perduto;
  • l’invulnerabilità di un potente nemico aiutato dai demoni e dagli dei irritati, contro i quali bisogna combattere;
  • la ricerca del figlio o figlia del re ancora bambini scomparsi nella foresta e ritrovati solamente molti anni dopo;
  • la comunità si esprime sempre solidale con il re e si muove compatta per raggiungere un fine comune (il Bene);
  • l’eroe si getta nella lotta cruenta e salva la situazione sconfiggendo definitivamente il Male, con un atto finale liberatorio.

Le opere per il teatro delle ombre sono centinaia, di cui circa 180 riconosciute come originali, suddivise in quattro grandi cicli.

Il ciclo più antico si compone di 7 storie, ha radici animistiche e pone al centro di ogni storia l’unione tra gli uomini e gli dei della natura in lotta contro Kala, il demone del Male.

Il secondo di 5 storie è dedicato sia alle conquiste di Dasamuka, l’ex re poi diventato demone, sia alla lotta di Arjuna, giovane eroe puro e nobile, contro Dasamuka che vuole ucciderlo, ma poi soccomberà, mentre Arjuna conquisterà il regno.

Il terzo ciclo è quello di Rama, composto da 18 opere, che si rifà all’epica indiana del Rāmāyaṇa ed alle storie in cui Ramasi allea con il dio indiano Hanumān, re delle scimmie, per combattere contro Rahwanae liberare la sua sposa Sinta.

Il quarto ciclo di 48 storie parla dei 5 fratelli Pandawa, in eterna lotta contro i cugini Kurawa, fino alla Grande Battaglia, dove muoiono tutti i Kurawa e quasi tutti i Pandawa, per vedere salire al trono un loro nipote, Parikesit, re mitico di Giava.

Esistono infine altre 100 opere con soggetti diversificati, alcune anche molto antiche, ma molto rappresentate. I temi ricorrenti possono sembrare ingenui o ripetitivi, sembra che evochino un po’ il motto delle nostre favole “e vissero tutti felici e contenti”. In realtà le storie sono intessute di dialoghi molto densi di sentimenti profondi e riflessioni raffinate sull’amore e sull’odio, sulla vita e i suoi cicli, sulla morte e sul dolore, sulla spiritualità e l’eterno contrasto tra il Bene e il Male, sull’uomo e i suoi slanci generosi, come sulle potenze demoniache che agitano il suo cuore, sulla necessità comune di avere una spinta ideale, un’etica civile, sul bisogno di una fede comune, di un Dio che aiuti a vincere questa battaglia interiore.

Come nelle tragedie greche, i miti giavanesi sono una lettura delle forze ancestrali e razionali che si contrappongono nell’anima umana. Anche nel teatro delle ombre il mito ha sempre una raffinata funzione didattica, educativa, esortativa, che spinge l’uomo ad elevarsi nei suoi sentimenti e nelle sue azioni, esalta la funzione della ragione e della legge come rimedio alla potenza devastante delle passioni e del sangue, pervade di divino e di spirituale la vita umana per farla uscire dalle tenebre del demoniaco e dell’ignoranza.

Le figure del teatro delle ombre (wayang kulit)

Finora si è parlato di drammi, storie, eroi, guerre, leggende, amori, demoni, dei e molto altro, ma vediamo ora come sono fatte queste “ombre”, come vengono denominate e che ruoli/funzioni svolgono.

I personaggi sono suddivisi in raggruppamenti tipologici:

  • i kekayon,
  • gli dei,
  • i semidei,
  • gli eroi,
  • i demoni e gli orchi,
  • i buffoni,
  • gli uomini,
  • gli animali.

Nel corso del tempo, in particolare nel XVIII e XIX secolo, le sagome destinate alle corti e ai set più prestigiosi vennero realizzate da grandi artigiani-artisti, dei quali è rimasta memoria storica, creatori che produssero importanti set teatrali usati in occasioni straordinarie. Questi artigiani-artisti di grande valore erano riconosciuti come fornitori personali esclusivi delle case reali e delle famiglie più importanti di Giava, che possedevano imponenti raccolte di wayang di grande pregio, impiegati nelle occasioni formali più importanti e per intrattenere le corti e gli invitati nelle feste serali.

Le sagome erano realizzate in cuoio di bufalo d’acqua, un animale diffusissimo a Giava. Il cuoio veniva conciato, pressato, abraso in più fasi, trattato e levigato con estrema cura per ottenere infine una sorta di pergamena semirigida, sottile come un cartoncino leggero, ma robusto e flessibile. Da questa materia di base il wayang veniva ritagliato nella sagoma voluta, in fogge e forme piuttosto fisse, ma spesso variate dagli artisti.

La pergamena veniva pazientemente traforata come un pizzo, per mostrare le fattezze del corpo e i decori degli abiti quando l’immagine veniva proiettata come “ombra” sullo schermo di garza.

Fig. 6 e 7 – Wayang kulit “Arjuna” – 1890 circa –  Kraton di Yogyakarta.
Vista a colori e ombra

La figura veniva poi decorata sontuosamente, gli abiti resi a colori vivaci, il corpo in colori diversi in funzione delle tipologie.

Molti wayang destinati ai kraton erano valorizzati con la copertura di molte superfici del corpo in foglia d’oro puro.

Le aste (tempurit), necessarie per manovrare le figure, erano realizzate in corno di bufalo, bollito e sagomato a caldo. L’asta principale (gapit) che reggeva tutta la sagoma, aveva il terminale inferiore appuntito per poter infilare facilmente l’asta nel tronco di banano, che fungeva da supporto per le figure che il dalang doveva avere a portata di mano. Le aste più piccole (tuding), anch’esse in corno, servivano per manovrare le braccia della figura, che erano quasi sempre snodabili ed erano fissate al corpo mediante perni di osso.

Le braccia erano indipendenti e mobili per le figure più nobili, mentre alcuni orchi e i demoni avevano un solo braccio mobile e l’altro fisso. 

I wayang erano realizzati seguendo canoni rigorosi, ogni dettaglio del volto o dell’abito o della postura avevano precisi significati. Le figure si differenziavano in particolare in due tipologie di base:

  • Alus, per evidenziare il livello di nobiltà, bellezza, raffinatezza, eleganza innata, coraggio eroico, magnanimità ecc.
  • Kasar, per sottolineare il grado di grossolanità, rozzezza, crudeltà, bramosia di possesso, bassezza dei sentimenti, viltà ecc.

Nella cultura indonesiana le caratteristiche alus erano da tutti apprezzate e auspicate, quelle kasar erano evitate e derise.

Fig.8 – Volto molto “alus” Fig.9 – Volto molto “kasar”

La presenza di sentimenti e caratteristiche alus o kasar erano ben visibili in ogni sagoma nei tratti somatici, nella forma del naso e della bocca e degli occhi, nei suoi atteggiamenti e nel vigore delle membra, nel suo abito e nella dimensioni del corpo. I tratti più alus erano quelli più leggeri, fini, delicati, dalle dimensioni minori, mentre quelli kasar erano più pesanti, forti, grevi, grossi. Ad esempio gli occhi allungati a mandorla, il viso elegante, il naso sottile, il collo lungo, lo sguardo modesto e defilato, le membra leggere erano tutte caratteristiche molto alus, mentre gli occhi sfuggenti o grandi, il naso grosso, le zanne e i denti in vista, il viso rosso di passione o di rabbia erano tutte caratteristiche kasar.

Esisteva una grande varietà di tipologie di occhi, nasi, bocche, capigliature, posture del corpo, fogge di abiti, che comportavano circa 25 variabili incrociate tra loro, che per gli spettatori caratterizzavano in modo evidente ogni wayang, permettendone l’identificazione. Noi osservatori attuali riusciamo solo a distinguere le grandi differenze, ma nei dettagli rischiamo di fare confusione.

Nessuno è mai riuscito a determinare il numero totale esatto delle figure presenti nel wayang kulit. Sicuramente sono almeno diverse centinaia, lo si può desumere dai set presenti nei kraton maggiori.

Sulla base della complessa e sterminata mitologia indiana e locale, ogni figura ha diverse denominazioni, in funzione di:

  • tipo di nascita avuta (giorni fausti o infausti, protezione assicurata da particolari divinità o maledizioni, tabù, ecc.);
  • tipo di genitori (figlio di uomini o di dei o di creature intermedie);
  • periodo della sua vita (bambino, giovane, adulto);
  • carattere iniziale alla nascita e i suoi sviluppi in seguito alle esperienze incontrate;
  • avvenimenti vissuti nel tempo (amicizie, amori, matrimoni, maledizioni, rivalità, vite diverse nel ciclo delle reincarnazioni).

Alcune figure hanno un solo nome codificato e ben definito, mentre per moltissime altre sono stati raccolti 4 o 5 nomi, fino a ben 10 denominazioni ed oltre per ciascuna. Per questo motivo diventa molto difficile, anche per gli specialisti, trovare una modalità comune per codificare un volta per tutte le diverse denominazioni rilevate. Inoltre la translitterazione dai caratteri sanscriti o giavanesi ai nostri caratteri introduce sempre delle differenze di interpretazione.


Tra le diverse centinaia di figure che popolano questo teatro, può essere interessante osservarne alcune, scelte tra i wayang provenienti da importanti antichi set appartenuti ai kraton di Yogyakarta e Surakarta, ora presenti in una collezione privata milanese.

Il gunungan (o kekayon)

È la figura più importante e sacra di tutto il teatro delle ombre. Il significato di queste denominazioni deriva da: Gunungan = montagna;  Kekayon = albero, foresta.

Questa sagoma raffigura l’ “Albero cosmico della vita” conosciuto anche come la “Montagna sacra della vita (monte Mahameru), che è simbolo del cosmo, dell’ordine eterno stabilito dagli dei.

Dal kekayon l’uomo riceve in dono l’acqua della vita, o meglio la mitica amrta (la non morte).

Fin dai tempi più remoti le rappresentazioni si aprivano e si chiudevano con “lo stendardo di Indra”, cioè con l’esposizione dell’albero della vita, sia per introdurre gli uomini nel mistero di ciò che sarebbe stato presentato poco dopo, sia per traghettarli di ritorno dal mondo degli dei verso quello terreno degli uomini.

Ci sono due tipologie fondamentali di kekayon:

1)  Il Gunungan Blumbangan: sempre associato al concetto di yoni femminile che riceve il seme della vita.

Il decoro riproduce un vaso contenente l’acqua della vita che bagna le radici dell’albero, che a sua volta ospita tra le sue fronde la vita cosmica, raffigurata con immagini simboliche di animali come uccelli, scimmie, fiori.

Le grandi ali aperte del sacro Garuda ricordano l’uccello mitico che unisce idealmente il cielo degli dei alla terra abitata dagli uomini.

Il terribile volto del Raksasa, posto al centro dei rami dell’albero, ricorda i pericoli ai quali è esposta l’anima e i dolori della vita.

Più in basso gli inferi ci ricordano i limiti strutturali posti dagli dei agli uomini e alla loro aspirazione ad ottenere l’eternità.

Nella parte posteriore un grande volto terrifico di demone di colore rosso viene mostrato in alcune fasi della rappresentazione.

Fig.10 – Gunungan Blumbangan (Kekayon) – Kraton di Surakarta.
Creato dall’artista di corte Kicerno Penatas nel 1850 circa.
Lato colore destinato al pubblico maschile.

2) Il Gunungan Gapuran: è sempre associato al concetto di lingam maschile, che genera se entra nel profondo Mistero femminile. Vediamo nella parte bassa la raffigurazione della porta del Bene e del Male, che ci fa entrare nei misteri della vita (la madre che genera), ben protetta da due giganti potenti e minacciosi, che simboleggiano le divinità protettrici della vita.

Sopra questa porta vediamo un ricco grande albero, ricco di rami e di foglie, che ospita la vita cosmica raffigurata da vari tipi di animali.

Anche in questo caso al centro dei rami dell’albero è raffigurato un terribile volto di Raksasa, che ricorda gli innumerevoli pericoli spirituali ai quali è esposta l’esistenza dei viventi.

Fig.11 – Gunungan Gapuran (Kekayon) – Kraton di Surakarta.
Creato dall’artista di corte Kicerno Penatas  nel 1860 circa.
Lato colore destinato al pubblico maschile

Il principe Arjuna

Questa figura si pone al centro delle diverse storie di questo teatro, una figura mitica, importantissima e insostituibile. Dotato di una grande spiritualità e di una forza fisica soprannaturale, è una delle più popolari e amate da tutti i giavanesi e i balinesi. Arjuna rappresenta l’eroe per eccellenza, il grande guerriero, capace di grandi amori e di grandi gesta, di coraggio e di immensa generosità, raccogliendo in sé tutte le virtù più elevate e nobili. Abbiamo di fronte una figura elegantissima, caratterizzata dai lunghi occhi, sguardo basso in segno di modestia e di autocontrollo, da membra lunghe ed eleganti, da un viso sottile con naso lungo e fine, ricca capigliatura molto elaborata e abito sobrio e raffinatissimo. Arjunaè il terzo figlio di due importanti divinità come Dewi Kunti e Pandu Dewanata. Nel Mahābhārata si afferma che suo padre fu niente meno che Bathara Indra, signore del firmamento. Raffigurato sempre come l’esempio più tipico della figura alus, Arjuna è anche conosciuto con la denominazione locale giavanese di Janakao Janoko. Egli è uno dei cinque fratelli Pandawa, i perfetti eroi in eterna lotta con i cugini Kurawa, gli antieroi per eccellenza. Egli quindi vive una vita tribolata, in continua lotta contro i nemici, contro miriadi di dei e demoni, contro le potenze negative che popolano le storie di cui è protagonista incontrastato. Su questa figura esistono molte intricatissime e lunghissime storie del wayang kulit, dove persino i giavanesi più colti finiscono con il perdere un po’ la complessa traccia del racconto.

Quando Arjuna deve interpretare il ruolo di re di Kaindraan il principe muta nome e diviene Kiriti, una delle figure più alus tra tutti i wayang.

La produzione dei wayang, in particolare del personaggio di Arjuna o Jonoko, si distingue molto a livello estetico tra i diversi kraton.

Le differenze possono apparire minime ai nostri occhi incolti, ma spesso coinvolgono particolari importanti, con significati precisi e riferimenti culturali non casuali. In particolare erano splendide le figure dell’importante kraton dei principi di Surakarta, ma anche la raffinatissima corte del kraton di Kedu si è sempre distinta per l’estrema finezza ed eleganza dei suoi wayang.

Fig.12 – Arjuna o Jonoko  –  Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1870 circa.
Lato colore destinato al pubblico maschile
Fig.13 – Arjuna o Jonoko –  Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1880 circa.
“Ombra” destinata al pubblico femminile.
Fig.14 – Kiriti –  Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1870 circa.
Lato colore destinato al pubblico maschile

Il dio Kresna

Kresna è una figura dominante nel grande poema del Mahābhārata. Possiamo affermare che questa è la “sua” storia. Conosciuto come Krishna in India, egli è un avatara di Vishnu e nel Mahābhārata agisce per garantire al mondo che le forze positive del Bene (i Pandawa) abbiano il sopravvento finale sulle forze del Male (i Kurawa).

Altra funzione di Kresna è quella di essere “maestro spirituale” che: illustra agli uomini il libro sacro della Bhagavad Gita; fa loro comprendere la profondità del mistero di Dio, mostra loro il percorso che unisce l’anima umana a Dio.

Fig.15 – Kresna –  Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1880 circa. Lato colore destinato al pubblico maschile.

Noto nella mitologia come amante e grande conquistatore di donne, Kresna ha fama di avere avuto ben più di mille mogli e quando parla di questa sua caratteristica peculiare il dalang insiste nell’esaltarne le virtù amatorie, per attrarre la curiosità del pubblico. La sua figura è certamente tra quelle più alus, per nobiltà, eleganza, finezza, ben evidenziati nella sua rappresentazione in cuoio dorato e colorato.

In questo caso Kresna ha la pelle tinta di nero, perché è nella sua versione “da guerra”, quando lo agitano le grandi passioni e la forte tensione per l’esito del conflitto. Quando la pelle invece è dorata-chiara significa che si presenta nella sua versione formale, pacifica, per le cerimonie di corte o nelle occasioni di dialogo con gli altri dei.

Fig.16 – Kresna –  Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1880 circa. “Ombra” destinata al pubblico femminile

Il demone Dasamuka o Rahwana

Questa importante figura, onnipresente in quasi tutte le opere, ha caratteristiche kasar che la rendono terrifica e spaventosa. Personaggio fondamentale nelle storie del principe eroe Arjuna, nasce in una foresta da un fiotto di sangue, quindi ne prende il nome: Rahwana (sangue della foresta). Divinità emblema dell’inganno, della conquista, del desiderio sfrenato di potere, acquista in seguito anche il nome di Dasamuka, che significa “Dieci facce”.

Ebbe da Brahma il potere magico di non poter essere ucciso da nessuno, né dai demoni né dagli dei, ma solo dalla virtù (Rama). La sua morte rappresenta la vittoria della virtù sulle grandi forze dei demoni del Male, che pervadono l’anima dell’uomo e tutto l’universo.

Fig.17 – Dasamuka o Rahwana – Kraton di Surakarta. Creato dall’artista di corte Lejan Bundu nel 1890 circa. Lato colore destinato al pubblico maschile

La divinità Baladewa

Baladewa è una figura del mito molto positiva e amata da tutti.

Figlio di Basudewa e re di Madura, Baladewa è descritto come la reincarnazione di Anantaboga, il dio Serpente. È spesso anche presentato come la reincarnazione di Bathara Basuki, dio della Felicità e della Prosperità. Di carattere intemperante e nervoso, Baladewa è però anche molto coraggioso ed ha un cuore estremamente generoso.

Benché sia grande amico di Arjuna, per ragioni d’onore familiare deve suo malgrado appoggiare i malvagi Kurawa contro i buoni Pandawa. In questo conflitto viene però ingannato da Kresna che lo spinge a non prendere parte alla battaglia. Infatti grazie ad una sua terribile arma se Baladewa avesse partecipato allo scontro sarebbe stato invincibile contro i Pandawa ed avrebbe fattovincere i Kurawa.

La figura che vediamo proviene dal set di uso personale del sultano di Yogyakarta, Hamenku Buwana, regnante dal 1822 al 1855. Il principe si dilettava spesso a cimentarsi in prima persona come dalang a corte.

Fig.18 – Baladewa –  Kraton di Yogyakarta.
Creato intorno al 1850 per il set personale del sultano Hamenku Buwana V. Lato colore destinato al pubblico maschile.

La divinità Bima Werkudara

Bima Werkudara è una divinità dotata di poteri spaventosi e di una forza che può diventare selvaggia e incontrollabile. Figlio di Bathara Bayu, Bima ha ricevuto dal padre un’arma potente, il pankanaba, un rostro inserito sulla mano, con cui può squartare nemici e creature anche molto grandi e forti, oppure abbattere foreste e montagne.

Semidio dal linguaggio crudo, diretto, spietato e senza freni, quando è in battaglia si batte come una tigre e senza risparmio di forze per ottenere la vittoria e per difendere i suoi amici.

Oltre ad essere famoso per la sua fame insaziabile di carne (chiamato anche “Fauci di lupo”), questa divinità terribile sa anche essere onesta, molto perseverante e tenace nell’affrontare le avversità.

Dotato di una grande forza di volontà e forza fisica, Bima può essere assimilato ad una sorta di figura di “eroe in cappa e spada” che sfida il destino avverso e le terribili orde dei nemici.

Osservandolo, possiamo affermare che se Arjuna è campione assoluto di eleganza, nobiltà, bontà, cultura e generosità (alus), Bima si distingue come essere grossolano, duro, arrogante, vorace (kasar).

Fig.19 – Bima Werkudara –  Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1890.
Lato colore destinato al pubblico maschile

La divinità Indrajit

La figura di Indrajitè importante per capire gli sviluppi mitici del rapporto tra il Bene (Kresna) e il Male (Rahwana).

Egli è figlio adottivo di Rahwana (per sostituzione, a sua insaputa, della vera figlia femmina del dio con un bimbo maschio trovato su una nuvola). Rahwana intuisce subito l’inganno e vorrebbe uccidere il bimbo, ma Indrajit cresce così bello, sano e forte da farlo desistere.

Il ragazzo diventa guerriero coraggioso, forte, potente, ed aiuta il padre putativo nelle continue conquiste di nuovi regni, nuove ricchezze e nuovo potere. Nella battaglia finale contro le armate di Rama e delle scimmie, egli combatte vigorosamente, ma Anoman riesce ad approfittare di una sua distrazione e lo uccide. Il suo corpo però si dissolve rapidamente e ritorna nei cieli accanto agli dei.

Il wayang qui presentato è un prezioso Indrajitcreato nel 1854 da Ki Guno Kertiwondo, un famoso artista-artigiano della corte di Yogyakarta, che operava solo per il teatro del sultano e del kraton.

Fig.20 – Indrajit –  Kraton di Yogyakarta.
Creato nel 1854 (datato) da Ki Guno Kertiwondo.
 Lato colore destinato al pubblico maschile

Il gigante-orco Kumbokarno

Fratello di Rahwana, egli è un raksasa, quindi un gigante molto brutto, dalle orecchie elefantine, con occhi a palla, il faccione rosso tipico degli orchi, naso a cipolla, bocca da mastino e corpo grasso, appesantito e robusto. Come tutti gli orchi egli è goffo, pigro, ghiotto, parla ad alta voce e in modo volgare, dice sempre cose sconvenienti, è quindi un vero kasar. Egli ispira sia terrore che disprezzo, ma in realtà poi impressiona tutti per il suo grande coraggio e la sua innata nobiltà d’animo, che esprimerà in diverse occasioni. Questa figura evidenzia una sensibilità molto vicina all’uomo moderno che vive il conflitto tra il senso del dovere e la propria coscienza. Kumbokarnoper fedeltà alla famiglia sta accanto al fratello Rahwana quando questo attacca il cielo degli dei, ma poi disapprova con vigore i metodi spicci e le crudeltà usate da Rahwanaper vincere. Durante la battaglia finale Kumbokarno inizialmente rifiuta di aiutare il tiranno crudele. Di fronte però alla richiesta di fare onore ai giuramenti e al dovere di fratello, egli scende in battaglia, pur sapendo di dover morire per una causa sbagliata.

Fig.21 – Kimbokarno  –  Kraton di Yogyakarta.
Creato nel 1873 (datato).
Lato colore destinato al pubblico maschile

La divinità Subali Resi

Questa divinità, conosciuta anche come Guwarsi, fu l’ultimo figlio di Resi Gotama. Il mito gli attribuisce la caratterista di avere sangue bianco, acquisita per essersi immerso in un lago in cerca di una medicina magica. Prima di trasformarsi e assumere un aspetto umano, Subali si ritira nella foresta per meditare. Gli dei gli donano allora un mantra magico, il Pancasona, in grado di garantirgli l’invincibilità finché egli non toccherà il suolo e non si batterà per una causa ingiusta. Presto la notizia che Subali è in possesso di questo mantra che gli garantisce la vita eterna lo rende oggetto di insistenti e ripetute attenzioni da parte di Rahwana, che vuole in ogni modo carpirgli il segreto, usando ogni inganno e alleanza. Ne segue quindi un complesso e lungo conflitto, che termina con la morte di Subali e il suo ritorno definitivo in cielo.

Il wayang è stato creato intorno al 1890 dall’artista Lejan Bundu, attivo nella corte di Surakarta.

Fig.22 – Subali Resi – Kraton di Surakarta.
Creato dall’artista di corte Lejan Bundu nel 1890 circa.
Lato colore destinato al pubblico maschile

La divinità Gatotkaca

Questa figura attiva nel Rāmāyaṇa è molto amata a Giava e Bali. Figlio di Bima, è dotato di forza straordinaria e del potere di volare, di cui si serve per soccorrere gli amici e i bisognosi. In combattimento è leale, forte, coraggioso e risoluto. Gatotkaca è l’ideale del figlio devoto, fedele, coscienzioso, capace di grandi atti di coraggio come di atti di umiltà e generosità. Ancora giovane viene chiamato a difendere il cielo degli dei da un attacco di Pracoma, un orco terribile, re di Tasikwaja, che egli sfida a duello riuscendo a sconfiggerlo per sempre.

In particolare nel conflitto del Bharata Yudha, Gatotkaca viene nominato comandante delle armate dei Pandawa. Egli combatte con valore contro lo zio Adipati Karna, pur sapendo che questi è dotato di una potente spada forgiata in cielo. Nonostante il suo valore, viene ucciso e tagliato a pezzi dallo zio. Il suo copioso sangue cadrà sulla terra per renderla migliore e più generosa.

Fig.23 – Gatotkaca Kraton di Surakarta.
Creato intorno al 1880.
“Ombra” destinata al pubblico femminile

Oltre a queste figure citate a titolo di esempi significativi, il teatro delle ombre si popola di altre centinaia di wayang, tutti diversi uno dall’altro, tutti dotati di un proprio preciso ruolo nelle numerosissime storie che animano questa forma d’arte. Ogni wayang si caratterizza con proprie virtù e difetti, agisce con atti e gesta di diverso tipo.

Possiamo definirli con una vera miriade di aggettivi: belli, eroici, perfidi, coraggiosi, terribili, generosi, pavidi, nobili d’animo, irascibili, audaci, buoni, avari, compassionevoli, crudeli, gentili, golosi, arroganti, violenti, goffi e impacciati, giocherelloni, lussuriosi, idealisti, invidiosi, ignoranti, pacifici, traditori, riservati, sanguinari, fedeli, petulanti, allegri, sporchi, sognatori e molti altri aggettivi.

Questo lungo elenco, tra l’altro nemmeno esaustivo, li mostra del tutto identici agli uomini, evidenzia la vasta sfaccettatura delle attitudini dell’animo umano, mette in luce la totale rispondenza dei wayang alle caratteristiche più peculiari dell’uomo.

Finora il termine wayang è stato tradotto come “figura”, mentre in realtà la traduzione più corretta e plausibile sarebbe “carattere”.

In sintesi, il teatro delle ombre ci presenta centinaia di figure, diversissime tra loro, che altro non sono che le innumerevoli varianti dei caratteri umani. I wayang kulit quindi altro non sono che l’eroico, tragico, ironico e comico specchio dell’uomo e del suo animo.

L’Unesco ha dichiarato il teatro Wayang kulit come patrimonio intangibile dell’umanità. In realtà per potersi salvare questo enorme patrimonio deve vivere di vita propria, perché non è fatto solo di belle figure di cuoio inanimate, è fatto soprattutto di storie, di valori, relazioni, miti, spiritualità, cultura collettiva, memoria, sogni e passioni condivise dalla comunità.

I media contemporanei stanno pian piano appiattendo e massificando le culture e forse stanno uccidendo le avventure vere ed i sogni ad occhi aperti dell’uomo, creandone di artificiosi e slegati dalla vita. Forse tra una o due generazioni il wayang kulit sarà solo un prezioso oggetto da museo o un baraccone per turisti mordi e fuggi. Pochissimi si rendono conto dell’enorme perdita che il mondo intero avrà quando questa millenaria espressione della fede e della cultura arriverà a sparire per sempre dalla vita quotidiana degli indonesiani, quindi anche dalla nostra. Noi cittadini del mondo tecnologico e della cultura globalizzata non ci rendiamo lucidamente conto di quanto sarà meno affascinante e meno avvincente e magico il mondo senza il dalang con la sua poesia ed il suo canto, senza il mistero delle ombre che si muovono sullo schermo bianco del sogno, senza il sacro gunungan che annuncia l’ingresso nel mondo dello spirito e degli dei, senza gli eroi e gli orchi, i nobili d’animo e i buffoni, i regni antichi e le belle principesse, i demoni e i giovani principi generosi, tutti intimamente così simili a noi.

Non ci rendiamo conto che con la loro perdita noi uomini del mondo attuale e del futuro perderemo anche una parte di noi stessi.

___________________

Bibliografia essenziale

BAUSANI Alessandro, Le letterature del Sud Est asiatico, Milano-Firenze, Sansoni/Accademia, 1970

BRANDON James R., Sui troni d’oro. Epica e cultura indonesiana nel teatro delle ombre di Giava, Milano, Claudio Gallone Editore, 1998 (ed. or. On Thrones of Gold. Three Javanese Shadow Plays, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1970)

TAYLOR Jean Gelman, Indonesia. Peoples and histories, New Heaven & London, Yale University Press, 2003

ZOETMULDER Petrus Josephus,Kalangwan. A Survey of Old Javanese Literature, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers, 1974