di
Virginia Del Re
(Associazione Casa della donna, Pisa)
per la serie di interventi “Miti che odiano le donne“
Il tema proposto da questo convegno mi ha offerto l’occasione per una molto desiderata re-immersione nel mare o dovrei dire ‘oceano’? del mito, e ha suscitato in me molte domande, vecchie e nuove. Tra tutte, due specialmente mi hanno accompagnato lungo il viaggio della memoria, e nuovi sguardi, da prospettive che la mia frequentazione dei miti, pur lunga, aveva a suo tempo trascurato. Soprattutto lo sguardo dalla parte delle donne. Una delle domande era, ed è: quanto ci rimane ‘dentro’ ancora, nel XXI secolo, dei modelli sociali, delle norme proposte e imposte all’immaginario collettivo maschile e femminile attraverso il mito? Quanto insomma resta delle narrazioni mitiche, delle stupefacenti creazioni scaturite in risposta alle domande primordiali e inevitabili che l’umanità ha dovuto porsi di fronte alle vicende della vita e alla morte? A parte il fascino che l’universo del mito inevitabilmente esercita, quanto e che cosa rimane vivo in noi della forza delle impronte lasciate dai miti? Nel pieno della rivoluzione tecnologica e informatica ha ancora senso parlare di miti, di culti antichi, e credenze religiose? Da un lato, per quel che riguarda il mito in sé, è evidente che, come il rito, esso è una esigenza imprescindibile dello spirito umano, e dove i vecchi miti sono divenuti materia obsoleta o sconosciuta, se ne creano, ne nascono, di sempre nuovi. Forse ha ragione James Hillman a parlare di Vana fuga dagli dèi.[1]
E, seconda domanda: possiamo ancora parlare di misoginia e di dominio maschile quando in occidente, ma non solo, ci sono donne che occupano altissime posizioni di potere, e raggiungono mete sociali e intellettuali una volta accessibili solo agli uomini? La risposta ci viene dagli eventi quotidiani stessi, orrendi, disperanti: la misoginia è universale e inestirpabile; scrive Jack Holland nel 2006, [2] “la misoginia è pervasiva, perniciosa, persistente e proteica”.
Nel mondo occidentale, nonostante i cambiamenti tardivi, ma reali, in atto, s’è dovuto creare un nuovo termine sub-specie giuridica per lo stillicidio di morti cruente di donne, per mano di mariti, amanti, fidanzati, e via dicendo: il femminicidio continua inesorabile nelle nostre cronache quotidiane, le discriminazioni, gli stereotipi di genere e di ruolo già ben radicati negli alunni delle prime classi scolastiche, il bisogno di possesso totale, il disprezzo e l’odio misogini ci accompagnano ogni giorno. Di quanto accade alle donne continuamente, dalla nascita in poi, in regioni dove regnano ancora codici culturali antichi o arcaici, forse non è neppure necessario parlare: oggi abbiamo tutti tutto sotto gli occhi, sempre che vogliamo vedere.
La maggior parte dei miti che conosciamo e che in qualche modo agiscono dentro di noi sono invero profondamente misogini. Studentessa liceale e universitaria, studiavo i classici e non mi rendevo affatto conto di questo sguardo ostile, e strabico, di quegli stereotipi crudeli, né i miei pur bravissimi professori ne facevano cenno; ora mi basta guardare le figure femminili e le storie che le illustrano… Storie create dai maschi della specie, – non tutte, forse,– ma certamente da loro elaborate e scritte; e anche, ricordiamolo sempre a noi stesse, tramandate da madri e figlie alle figlie e ai figli; la trasmissione primaria della cultura e della norma sociale è opera materna.
Ma perché, ci chiediamo, allora quest’odio, quando il genere maschile viene messo al mondo e nutrito, curato e (di solito) amato dalle femmine della specie? Appunto: perché? Come si spiegano il disprezzo e insieme l’attaccamento maschile, a volte folle, verso le donne? E perché, in particolare, questa continua, quasi universale, insistenza nel negare alle donne il diritto all’istruzione? Viene alla mente la celebre tirata del puro e devoto, forse sessuofobo, Ippolito di Euripide, quando dice:
Le donne sapienti le odio, e mai vorrei a casa mia una più intelligente del dovuto. È in donne come queste che Afrodite instilla di più la malizia, mentre proprio lo scarso cervello preserva dal vizio la donna scema… [3]
Per quante spiegazioni vogliamo tentare, il paradosso dell’odio profondo che percorre tutte le culture patriarcali e della violenza – psicologica o fisica – esercitata dal maschio nei confronti del corpo di chi sola può generarlo, rimane un groviglio oscuro e inquietante. è Adrienne Rich a toccarne un punto cruciale, quando scrive: «abbiamo anche conosciuto, più intuitivamente e inconsciamente, le fantasie maschili sul nostro potere, fantasie che avevano lontane radici nell’infanzia e nel terreno mitogenetico della storia. Quali che ne siano le origini, queste fantasie maschili, proprio perché espresse così indirettamente sono sfuggite a molte donne. Ciò che per secoli abbiamo visto è stato l’odio per le manifestazioni di forza da parte delle donne, le definizioni che si davano della donna indipendente: anormale, castrata, frigida, castrante, pervertita, pericolosa; la paura della donna materna ‘soffocante’, la preferenza per le donne dipendenti, malleabili, ‘femminili’. [4] Ma la consapevolezza che tutte le donne possano oscuramente essere oggetto della paura e dell’odio dell’uomo ha cominciato a farsi lentamente strada in noi con gli scritti di alcuni post-freudiani [5] ed è una visione che neppure le donne accettano ancora completamente.»[6] Rich riporta le parole di Karen Horney: «Non è incredibile (ci chiediamo con stupore), considerando l’enorme quantità di questo materiale rivelatore, che si dedichi così poca attenzione alla segreta paura dell’uomo nei riguardi della donna? è quasi ancor più incredibile che le donne stesse per tanto tempo siano riuscite a ignorarla…» [7]
In effetti lo sguardo femminile sulla Storia e sulle storie tramandateci e la critica che ne consegue è recente: le giovani donne, anche le occidentali, istruite, colte, professionalmente e socialmente avanzate ignorano totalmente questo tema. Gli stereotipi di genere, le norme di ruolo, desideri e miti si perpetuano per mancanza di conoscenza. La forzata ignoranza permette al potere di rimaner saldo nel sistema patriarcale, travestito o meno da norma religiosa, da volontà divina, da fatto biologico ‘naturale’.
Basta ripercorrere i sentieri del mito, classico e non, per sentirsi di nuovo quasi assalire dalla contraddizione irrisolta dello sguardo maschile verso l’universo del femminile: una relazione quasi schizoide – the ‘split’, lo chiama Ann Shearer in ‘Athena’ (1995); [8] Simone de Beauvoir (Il Secondo Sesso, ed. 1961) parla de “L’esitazione del maschio tra la paura e il desiderio, tra il timore di cadere in mano a forze incontrollabili e la volontà di impadronirsene”, da cui nascono e si perpetuano miti potenti, che, sì, pesano ancora sulle donne in moltissime culture, primi tra tutti, il mito e l’ossessione, e pretesa, della castità e della verginità. In effetti, la rivalità, la fobia misogina sono radicate nella paura: paura di vari tipi, che qualcuno (Michel Foucault, per esempio) riduce al timore profondo, per quanto inconscio, della perdita dell’identità sessuale maschile, in favore dell’identità – inferiore – femminile). Può ben darsi che sia così. Come pure è possibile che l’odio misogino sia il frutto dell’amore infantile respinto, temuto, per la madre, e della indicibile paura di essere riassorbiti nell’utero (metaforico e non), resi nuovamente impotenti, deboli: dunque paura di perdere il potere: nudi, inermi, incapaci di tutto, appena usciti dal suo corpo di donna. Certo, il desiderio ha radici biologiche, ma sappiamo che c’è molto di più: gli uomini e le donne si interrogano e forse ogni ipotesi contribuisce a completare il mosaico, ma le domande restano, le risposte non bastano mai. Il campo della misoginia rimane troppo vasto e troppo complesso. Che cosa vuole realmente chi vuole a tutti costi mantenere dominio e possesso di qualcosa che ‘disprezza’, che considera inferiore e pericoloso, contaminante, falso per natura e indegno di contatto diretto col Divino, incapace di pensiero e di parola?
Le norme tramandate dai codici arcaici (e non) sono chiarissime nella loro brutalità. Da Licurgo allo Stridharma, [9] da San Paolo al terribile Tertulliano e al nostro Savonarola le linee sono quelle: verginità, obbedienza e fedeltà al marito-padrone, insomma sottomissione, e soprattutto ‘modestia’, silenzio e invisibilità. Regole e imposizioni accompagnate dalla fantasia – un wishful thinking, se mai ve ne furono – ricorrente, comune a tutte le culture: le donne sono creature sessualmente insaziabili, spudorate, incontenibili e irresponsabili, e vanno pertanto sorvegliate e punite, anche senza alcuna prova di colpa.
Ecco un classico gioiello di furia misogina dal mondo cristiano, Tertulliano:
Solo l’Uomo, non la donna, è [fatto] a immagine di Dio.
Tu sei la porta del demonio, tu sei colei che violò l’albero proibito… Tu sei colei che persuase colui che il diavolo non aveva avuto abbastanza coraggio da attaccare. Non sai che anche tu sei Eva? La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora oggi; La tua colpa rimane ancora.”
Presso gli eretici le donne insegnano, disputano, guariscono e forse battezzano.
Le donne non possono insegnare, battezzare o esercitare il ministero sacerdotale. [10]
L’antica India è, rispetto alle donne, molto chiara: ecco una citazione dalle Leggi di Manu:
Esporrò adesso le eterne leggi per un marito e una moglie che vogliano mantenersi saldi sulla retta via, sia nell’unione sia nella separazione.
Notte e giorno le donne devono essere tenute in stato di dipendenza dagli uomini e, se inclinano ai piaceri dei sensi, vanno messe sotto stretto controllo.
Il padre la protegge nell’infanzia, il marito nella giovinezza, i figli nell’età della vecchiaia: una donna non è mai adatta all’indipendenza.
Nessun uomo è capace di tenere a perfezione sotto controllo la moglie per mezzo della forza: ma le donne si possono custodire con vari espedienti:
la tenga occupata ad accumulare e spendere denaro, a tener tutto puro, ad adempiere ai doveri del dharma, a cucinargli il cibo e a badare agli utensili di casa.
E, a proposito di conoscenza e sapere, ecco:
Le donne, prive di energia e prive dei testi dei Veda, sono la menzogna pura: questo è un dato di fatto.
La citazione che segue viene dal Mahabharata,
“Le divinità si recarono dal sommo Padre e dopo aver riferito quel che s’agitava nelle loro menti restarono in silenzio, a capo chino.
Il sommo Padre comprese ciò che ribolliva nel cuore degli dèi, e, con un atto di magia, creò le donne, in modo che fossero motivo d’inganno per gli uomini.
In una prima creazione le donne erano virtuose, ma divennero malvage in seguito alla portentosa ri-creazione di Prajapati. [11]
Il sommo Padre diede a esse la brama d’ogni piacere, e da allora le donne, cùpide d’amore, presero a perseguitare gli uomini.
Il signore degli dèi, potente, creò allora, col piacere, l’ira: e tutte le genti sono adesso preda del potere d’ira e passione.
All’occasione, si precisa che:
Non vi sono azioni sacrificali assegnate alle donne, questa è la norma stabilita; la Tradizione dice che le donne sono prive di mezzi di conoscenza, non possono accedere ai Veda, sono la falsità. [12]
Nel contesto generale della misoginia nel mito mi sembra cruciale il tema di disobbedienza, e conoscenza: e la ribellione possibile. Perché il silenzio, l’invisibilità pubblica, l’ignoranza, sono così generalmente imposti alle donne? Strumenti chiave del ‘dominio maschile, [13], e del Potere tout court, sono la conoscenza, il sapere, e di questi, l’espressione principale è la Parola. Si nomina la Parola e vengono subito alla mente il Libro biblico della Sapienza e soprattutto il grande, solenne incipit del Vangelo di Giovanni: “In Principio era la Parola” (prontamente tradotto in ‘Il Verbo’).
Prendo per un momento un sentiero volto a Oriente, al meraviglioso antico pantheon indiano per ricordare una sorprendente presenza del tema ‘conoscenza’. La grande Sarasvati è considerata dea della fertilità, propiziatrice delle nascite. Essa è anche associata alla poesia e al sapere e più tardi assimilata a Vač la dea della Parola, Accanto alle divinità maggiori, maschili, e alle divinità femminili ‘naturalistiche’, accanto a Ushas e Sarasvati, compaiono dee più inaspettate: concetti ardui e speculazioni estremamente rarefatte: anche la Parola, le lettere dell’alfabeto, le modalità della conoscenza divengono divinità. Così troviamo nei Veda figure femminili per noi abbastanza straordinarie, quali, tra tutte, Vač, la sacra Parola, il suono sacro. Nello spirito religioso vedico e hindu, il rito e le parole in esso pronunciate sono portatori di tale potenza da poter ‘legare’ gli dèi stessi. Il negoziatore di questa ‘magia’ è il Brahmano, ma è nella Parola che rimane la forza misteriosa e magica della sacralità del rito.
Al di là delle vertiginose speculazioni filosofiche intorno a Parola, – o Verbo, o Logos -, noi qui pensiamo innanzitutto alla Parola come attività sociale pubblica, strumento di prestigio e di comando, parola come attività di libero controllo delle proprie scelte, come manifestazione di soggettività autonoma, ed espressione del Sé; ancora di più, parola come capacità di contatto e mediazione col Divino. Alle donne quest’ultima particolare parola è ancora vietata in buona parte del mondo, e anche dove non lo è più – ma la mediazione col sacro, l’accesso diretto al divino, rimangono ancora tabù quasi ovunque – essa è accettata con diffidenza e timore. Il divieto alle donne di accedere all’istruzione e agli strumenti del sapere, e la negazione della libertà di gioco e dunque di esercizio della fantasia, sono ancora molto diffusi nel mondo. L’ordine patriarcale, è stato detto da pensatori, antropologhi, scrittori e scrittrici, ed è del resto evidente dappertutto, vuole le donne sottomesse, invisibili e mute, ignoranti.
Ma, per stare nel cuore dell’argomento ‘Mito’, qual è questa ‘conoscenza’ tanto pericolosa? Certo, la conoscenza del mondo e delle sue diverse espressioni, e anche il sapere astratto e teorico, ma, alla base di tutto, io metterei, – in termini moderni, e in specie per quel che riguarda le donne – la conoscenza come desiderio e libertà di sapere e capire oltre l’apparente, il bisogno di parlare, di essere ascoltate; la conoscenza della propria identità di persona femminile (o maschile) singolare, e da questa, la capacità di far valere i propri diritti, la consapevolezza di voler e poter scegliere. Questa conoscenza implica infatti il fondamentale (e pericoloso…) diritto di scelta: se o no, e quando, e con chi, generare prole, se o no e quando e con chi condividere la vita, per esempio. E, ancora più importante, essa implica l’autonomia rispetto alle regole, cioè la libera assunzione di responsabilità personale. Insomma, il frutto proibito dell’albero della conoscenza del bene del male, sapere che porta con sé insieme sofferenza e potere.
Emerge chiaro dunque il legame tra conoscenza, disobbedienza e potere in alcune delle figure femminili in qualche modo ‘devianti’, o meglio nella loro rappresentazione: quelle donne, mortali e non, sanno, vedono e pensano autonomamente, e fomentano così la fobia misogina, il terrore del sistema patriarcale nei confronti dell’Altro per eccellenza, cioè la femmina della specie, da millenni, (forse ab initio, se pensiamo alla Genesi, il racconto biblico delle origini), sotto il dominio maschile, di dover condividere con lei il sapere, e forse perfino di dovervi rinunciare a suo favore, perdendo così, pensiero intollerabile, il segreto del potere stesso. Non c’è anacronismo, purtroppo: il titolo di un libro di Stefan Bollmann, uscito nel 2014 recita: Le donne che pensano sono pericolose [14] … Siamo tutte, credo, rimaste sconvolte dalla vicenda della ragazzina Malala – ora premio Nobel – attaccata perché andava a scuola. Si trovano innumerevoli voci esplicite contro le donne assetate di sapere: ancora in tempi moderni e ‘razionali’, si ridicolizzano le curiose e le pedanti, come secoli addietro facevano poeti, polemisti e moralisti, o commediografi come Aristofane e Molière. Nel folklore troviamo Barbablù e la stanza segreta – degli orrori, è ovvio – e la giovane donna curiosa che rischia la vita per rompere il tabù.
Il silenzio delle donne, la loro soggezione al divieto di sapere sono tra i fattori più rilevanti riguardo alle donne nella Storia, alla frammentaria o inesistente storia delle donne reali, ed è proprio per questo che mi son parse particolarmente interessanti quelle donne nel mito (riprendo l’espressione di Bettina Knapp) che compaiono come ribelli, o almeno disobbedienti e indisciplinate, spesso intellettualmente lucide, anomale in quanto in qualche modo affrancate dal dominio che ne vorrebbe la sottomissione, il silenzio e la cecità.
Figure situate tra mito, leggenda e storia, là dove in effetti le ha collocate la parola maschile. A questo proposito, ricordo, se per caso la bellezza o la forza emotiva della narrazione ce lo facessero dimenticare, che la presenza e/o l’assenza, la visibilità o l’invisibilità delle figure nel mito, uomini o donne che siano, e anche nella cosiddetta Storia, è stata finora tutta opera di mano maschile. Invisibili e inudibili, alle donne la storia è stata cucita addosso per millenni. Gli studi di Storia delle donne, agìta e finalmente ricostruita e scritta dalle donne stesse sono recentissimi, visti in prospettiva temporale. [15]
È però vero che ci sono, e ci sono state nel tempo, voci maschili favorevoli all’istruzione per le donne: Stendhal, [16] tra gli altri, e uomini di mente lucida e spirito giusto e generoso come John Stuart Mill, o, prima di questi, Thomas More. Simone de Beauvoir cita Erasmo e Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, medico, filosofo e astrologo (Colonia 1486 – Grenoble o Lione 1535).
Ma la corrente principale della Storia non va in quella direzione, almeno non abbastanza rapidamente, e quel che filtra dalla cronaca, anche quella a caccia dell’evento più sensazionale, non è che una piccola increspatura superficiale in un oceano di violenze e sopraffazioni quotidiane. Del resto, che la vita delle donne dovesse essere oggetto di regola e discussione da parte degli uomini è di per sé fatto eloquente: alle donne stesse non veniva neppure in mente di dibattere se o no agli uomini si potesse permettere questa o quella libertà…
Il Mito tuttavia si serve di simboli e allegorie, non fa prediche, e nella sua immobilità senza tempo, sorride molto poco. Serio e tragico è il destino delle veggenti, delle profetesse: oracoli, sibille, o delle eroine delle grandi tragedie e saghe delle mitologie del mondo, tutte, sempre, assoggettate al pesante ordine del Fato/Dio, che le punirà per aver visto, deciso, parlato con mente propria.
Tra le figure del mito legate alla conoscenza, e alla libera scelta, ho pensato in particolare alle figure di disobbedienti diciamo per semplificare, ‘umane’, come Eva, la disobbediente per antonomasia nella cultura occidentale, e la sua ombra scura, Lilith, molto più forte e trasgressiva; o Pandora, anch’essa ‘colpevole’, ma inconsapevole: sono le figure archetipiche della Prima Donna, origine di tutti i mali dell’umanità. Eva in particolare viene accusata non solo della colpa universale e perpetua: a lei e all’intero genere femminile dopo di lei, viene imposta la sentenza “moltiplicherò di molto le tue pene e il tuo concepire; con dolore darai alla luce i tuoi figli, il tuo desiderio sarà per tuo marito ed egli avrà dominio su di te.” Come ben nota Jack Holland, il dio del Nuovo Testamento non è meno vendicativo di Zeus e degli dei del pantheon classico. Spesso si accosta Pandora a Eva, in quanto ambedue responsabili di tutti i guai di un’umanità altrimenti felice (in generale una società di maschi). Pandora, che per qualche ragione mi fa pensare a Barbie, non sembra però avere alcuna consistenza personale: bella e muta, è giocattolo tragico degli dei, frutto di un perverso divertimento di Zeus, così come molte altre donne del mito. Dice Esiodo: [17]
Da Pandora discende infatti la razza delicata e funesta delle donne, le quali andarono a vivere con gli uomini, tormentandoli con le loro pretese e le loro molestie.
I miti – le storie, e il senso simbolico universale che esprimono – trascinano, affascinano, è facile perdersi e dimenticare l’oggetto preciso della riflessione, né i contorni della narrazione e del senso sono mai netti e chiari: così la scelta nella folla di figure è avvenuta distinguendo tra figure femminili del mito ‘negative ‘, o devianti rispetto alla norma patriarcale: presenze individuali vive, dotate di voce e parola, soggetti agenti, insomma, e figure invece, sì, presentate come devianti e negative, ma indistinte, senza voce e parola, ‘senza storia’, prima fra tutte Pandora, per esempio, ma la stessa Lilith, che viene contrapposta a Eva come donna ribelle, perversa.
Ci sono dee e semidee e eroine del mito, veggenti, maghe o donne indipendenti, forti nel pensiero e nella voce: sono molte, in realtà, le rappresentazioni ‘femminili’ connesse a sapienza, profezia, e ‘amministrazione’ della giustizia: agenti del Fato, come le Moire, e altre favolose figure negative, orripilanti.
Entità mitiche femminili distruttive, minacciose e terribili, senza tempo e senza volto umano: individue, ma più spesso trine, sono le Erinni, chiamate anche Eumenidi per ingraziarle; le Parche; le Moire. E poi la folla mostruosa: la Gorgone, la Sfinge, le Arpie, le Sirene, Scilla, e via dicendo; o esseri profetizzanti e oscuri come la Pizia e le Sibille: entità semidivine o semiumane, non ben definite, ma che si possono in qualche modo tutte inscrivere sotto il segno del conoscere, sapere e vedere. Una moltitudine di figure complesse attraverso le quali meravigliosi e crudeli racconti mostrano la duplicità strabica della visione maschile nei rapporti tra i generi.
A proposito della ‘folla mostruosa’, e dei miti che odiano le donne, certo, il Mito greco ci regala anche le Muse e le Grazie, ma, come leggo nel commento di Giulio Guidorizzi a ‘I Miti’ di Igino (Adelphi, 2005): “Le Arpie appartengono alla diffusa categoria dei mostri femminili vendicato
ri, come Gorgoni e Sirene. è tipico peraltro dell’immaginario mitico dei greci attribuire a figure femminili, e non maschili, i tratti della più mostruosa alterità. Le Arpie hanno carattere persecutorio”.
Ho parlato di ribelli: non si può tuttavia pensare a ribellioni consapevoli all’ordine patriarcale: ribelli in senso proprio sono le Amazzoni, le Lemnie, e forse le gagliarde guerriere del Walalla, le Valkirie, e, in modo del tutto singolare, Lilith, della quale, mi sembra, si parla comunque molto poco -e oscuramente-, nei testi della religione ufficiale, salvo poi a riferimenti continui e importanti nei testi non canonici.
Sopra tutte le altre, Amazzoni e Lemnie sembrerebbero soddisfare pienamente i requisiti di ribellione femminile consapevole e organizzata: libertà, legislazione autonoma, forza fisica, esclusione degli uomini e così via. Rappresentano così per molte/i un esempio di società matriarcale reale e ‘vincente’. C’è sempre stata una tendenza separatista da parte delle donne – poche – ‘ribelli’. La separatezza – o in termini femministi – il separatismo dell’eterna inimicizia, si addiceva alle Amazzoni e affascinava gli uomini. Cito ancora da J. Holland: [18] “Non sorprende che visto il numero di limiti imposti alle donne, gli uomini fossero quasi ossessionati dall’idea delle donne che oltrepassavano quei limiti”. Questa ossessione è ben illustrata dall’interesse costante esercitato dal mito delle Amazzoni, che avevano invaso il più maschile dei santuari, e organizzato la guerra – Le Amazzoni sono una presenza costante nella storia greca, e il tema ci ha seguito in epoca moderna”: è ancora l’ambivalenza maschile: la scelta autonoma e radicale delle Amazzoni, esercita fascino, ammirazione e paura. Pentesilea la coraggiosa guerriera troverà, stavo per dire ‘naturalmente’, la morte in mezzo ai guerrieri, e come un guerriero sarà pianta.
Affascinante. Ma ecco l’osservazione di Eva Cantarella su questi ‘miti matriarcali’, a una lettura attenta dei fatti: “… sia le Amazzoni sia le Lemnie sono donne crudelissime, le Lemnie addirittura selvagge e repellenti… Sia le Amazzoni sia le Lemnie erano comunità di sole donne: in nessuno dei due racconti, quindi, le donne regnano su una società normalmente composta di uomini e donne…” [19] E ancora: “Anziché rappresentare un momento di potere matriarcale, questi miti sembrano insomma voler piuttosto ‘esorcizzare’ l’idea di un eventuale potere femminile.” [20] Come volevasi dimostrare.
Naturalmente non tutti questi personaggi mitici mostrano intelligenza e capacità di parola né, ovviamente, coscienza del sistema maschilista nel senso di cui abbiamo detto, ma in vario grado tutte queste figure ‘non allineate’, consapevolmente o no, sembrano avere in comune due tratti fondamentali: voler sapere e voler agire autonomamente. E, sebbene alla fine inesorabilmente vittime del sistema e del loro stesso modo di essere, del loro karma, alcune di esse sono descritte – anzi, ‘scritte’ – in maniera molto complessa. Ci sono figure di donne pensanti, orgogliose e capaci di opporsi, di dire ‘No’, donne soprattutto capaci di parola pubblica. Donne molto forti, protagoniste che scelgono, e pagano per le loro scelte. Da Cassandra, ‘la più bella delle figlie di Priamo’, veggente condannata a vedere e non essere creduta, fino a non poter salvare la sua stessa città dalla rovina che pur vede arrivare con chiarezza; o la meravigliosa giovane Antigone, vittima delle sue convinzioni e della sua lealtà, in altra epoca si sarebbe detto della sua fede: Antigone, capace di dire “Io non cederò” per tener ferma la sua fedeltà all’istanza etica che supera ogni altra, o Medea, dal destino terribile, maga, potnia futon, ma, secondo il Sistema, assassina crudele del fratello e dei suoi stessi figli. In realtà Medea, che ha tradito i suoi per amore ed è tradita a sua volta, è pericolosa perché sa molte cose segrete: conosce bene le vicende e i segreti di Giasone, e soprattutto sa l’inconfessabile segreto di Corinto, le cui fondamenta sono intrise di sangue infantile. [21] Clitennestra, adultera e assassina anche lei, e però giustificata dalle Furie in quanto madre vendicatrice; Didone, regina saggia e potente, vittima delle sue scelte d’amore; Arianna, che libera l’umanità dall’osceno Minotauro, e sconta orribilmente la sua scelta d’amore. E Circe, la maga-strega, tanto potente da saper trasformare gli uomini in porci, che sa le arti magiche, e sa leggere il futuro. Ho tralasciato Lisistrata, creatura deliziosa e intelligente, ma, come Aspasia, non mitica, mezzo sogno / mezzo incubo maschile, o come Ipazia, che pur rimanendo assolutamente emblematica in questo contesto, appartiene alla Storia anziché al Mito.
Eva, di fronte a questi racconti, evapora nelle nebbie dell’invisibilità (parlo della presenza di soggetto attivo pensante). Tuttavia su di lei vale la pena di leggere Bettina Knapp in Women in Myth. [22] L’autrice legge da una precisa prospettiva psicanalitica junghiana, ma alcune sue osservazioni mi sembrano condivisibili comunque: “Eva fu la prima a capire ’il potere’ insito nel frutto che pendeva dall’albero della conoscenza del bene e del male nel Giardino dell’Eden.
E quando la donna vide che l’albero dava buon cibo e che era gradevole allo sguardo e ed era un albero desiderabile per dare sapienza a una persona, allora ne prese il frutto e lo mangiò, e lo dette anche al marito con lei, e anche egli mangiò. Gli occhi di ambedue si aprirono e seppero di essere nudi. (Gen. 3:6-7)
Alcuni interpreti caricano Eva di accuse e la disprezzano per quella che è stata chiamata la ‘Caduta’ dell’umanità – il che spiega perché per secoli, Eva è stata identificata con le forze distruttive e malvage all’opera nelle società. Altri, al contrario, lodano, ammirano e venerano questa donna per ciò che considerano la sua azione incredibilmente coraggiosa. “Eva intuì che il ‘frutto’ prometteva la possibilità della sapienza, della incommensurabile ricchezza interiore, di gnosis. Ella fu la prima persona a cercare la ‘conoscenza’ e la prima ad assaggiare il frutto offerto dal Serpente, assorbendo così dentro di sé la ‘scintilla’ divina. […] Eva fu, per così dire, il genio della sua età, come Galileo, Shakespeare e altri lo furono della propria. Tutti i giganti della scienza, dell’arte, della politica e della cultura, antichi o moderni, sono rivoluzionari, conquistano l’ignoto. […] Eva era dotata di una mente curiosa e può essere vista come potenza positiva, una eroina…La sua diretta violazione del decreto divino – il rifiuto dell’ordine patriarcale – significa non malvagità, bensì un passo avanti dell’umanità sulla strada del progresso.” [23] (Adamo, poi, non è che vittima passiva della seduzione di Eva, poveruomo.)
Una lettura forse un po’ enfatica, e certamente parziale, ma il coraggio – o la temerità – di Eva nel rompere il divieto divino è innegabile.
Da un diverso piano di pensiero, Mircéa Eliade, per conto suo, nota come da questo episodio (pure “oscuro”) della Genesi emerga la straordinaria “idea, sconosciuta in ogni altra parte del mondo del valore esistenziale della conoscenza: in altri termini, la scienza può modificare radicalmente la struttura dell’esistenza umana.” [24] E questo dà alla disobbedienza e curiosità di Eva un valore simbolico straordinario.
Dei miti della classicità greca fanno parte anche le due
potentissime dee, vergini irriducibili per scelta, Athena e Artemis: la prima, senza madre, nata dalla testa di Zeus, ha l’autorevolezza di divinità potente e saggia, rappresenta addirittura la conoscenza e la techné stesse. Artemis è una figura peculiare, come dea, anch’ella potente, ma spesso irruenta, e crudele, non saggia. Di lei sono chiari i tratti della Grande Madre arcaica. Dea immortale, Artemis ama le montagne, ove comanda uno stuolo di giovani donne che con lei vivono di caccia. Può essere inflessibile e crudele nelle punizioni, ma protegge le partorienti. è amata e temuta, il suo culto arcaico è diffuso in tutto il mondo, in mille forme.
Ambedue affascinanti, nessuna delle due è comunque ‘colpevole di disobbedienza’: la loro scelta di ’autonomia’ dal genere maschile sembra farle più potenti. È interessante che una delle molte facce di Artemis, dea dai molteplici aspetti, sia un maschio, il fratello gemello Apollo, bellissimo e ricco di talenti, protettore e creatore delle arti, a volte estremamente crudele, dio potente anche lui.
L’induismo ha magnifiche figure femminili, come Draupadi e Savitri, per esempio, purtroppo da noi poco note. Savitri è, sì, sposa perfetta, ma è intelligente, decisa, capace di scelta personale e di iniziativa. La sua vicenda richiama quella di Alcesti, nella forza dell’amore che riscatta l’amato dalla morte. Ma è forse Draupadi, una delle figure del Mahabharata più giustamente celebri, a rispondere meglio al filo che stiamo seguendo: Draupadi, pur amando, riamata, l’eroe Arjuna è, per uno strano gioco del destino, moglie legittima di tutti e cinque i fratelli Pandava. Un giorno, il maggiore di loro, che ha il vizio dei dadi, avendo già perduto tutto, mette Draupadi come ultima posta e perde. Chiamata a corte col marito per rispondere dell’incredibile situazione, Draupadi cerca coraggiosamente di dimostrare la nullità della ‘partita’ con una pubblica arringa, famosa per la ‘sorprendente’ lucidità dell’argomentazione, e l’inaspettata, rigorosa, sapiente conoscenza delle leggi e dei testi sacri.
Nel viaggio di ricognizione tra miti e favole, riti e culti, figure mitologiche di divinità, alla ricerca di donne ‘ribelli’, ho dovuto ricordare a me stessa – è debito di cuore, e di anima, nel senso junghiano,— che tutto questo era ancora una volta creazione maschile, inclusa la rappresentazione delle eroine della tragedia e della commedia, meravigliose nella sensibilità e nella complessità con cui le incontriamo nelle opere di Euripide, o Eschilo, o Sofocle, e persino di Seneca, rigido e spesso pesante moralista, e Virgilio, per non dire di Ovidio, che partecipa al dolore delle eroine tragiche in maniera sorprendentemente moderna, immaginando le loro lettere agli amanti. Simile simpatia ispirerà molto più tardi poeti come Racine (Fedra), e più recenti, come Anouhil (Antigone) o Pasolini (Medea): uomini tutti egualmente attratti dalla forza e dall’umanità ferita di Cassandra, e Medea, e Fedra, Antigone, o perfino di Clitennestra, la più dura e invisa, ma portatrice consapevole di un’istanza di giustizia superiore nel vendicare la figlia Iphigenia, sacrificata dal padre, incarnazione feroce dell’avidità maschile di potere. In queste opere la spina dorsale del racconto mitologico rimane spietata, ma lo sguardo del narratore può essere pietoso e, seppur mai giustificatorio o ammirato, azzardo un termine molto moderno, rispettoso. Questo accade nel mondo greco, nelle tragedie in particolare, in cui il giudizio e la condanna delle grandi protagoniste tragiche sono meno drastici, meno definiti che non per le figure maschili.
A proposito di Fedra, l’attacco moralista di Ippolito contro l’intero genere femminile appare come una summa di tutti i possibili stereotipi misogini, quasi un delirio anti-femmine. Viene il sospetto che Euripide, non per nulla poco amato dal pubblico, abbia di proposito esagerato, creando una specie di caricatura del misogino, un po’ come fece Molière con l’iper-ipocrita Tartuffe. Del resto Ippolito è nato da una relazione extraconiugale di Teseo e Ippolita, regina delle Amazzoni, le donne mitiche che escludevano o regolavano a proprio gusto, il rapporto con gli uomini. Ippolito è, non per nulla, devoto ad Artemis, la dea che ha scelto da bambina, sulle ginocchia del padre Zeus, di vivere per sempre vergine e indipendente [25] . Dunque, dopo aver sentito dello scandaloso amore che Fedra, sua matrigna, prova per lui, Ippolito sferra la celebre invettiva “O Zeus, perché hai messo alla luce e imposto agli uomini la donna, questo fraudolento malanno?” [26] Va avanti vaneggiando di un mondo senza donne, poi continua: “Che la donna sia un malanno, è chiaro dal fatto che il padre, che l’ha generata e allevata, paga un prezzo per liberarsene…” e via così, fino all’apice: “Siate maledette! Non mi stancherò mai di odiare le donne.” [27] Un’invettiva che sembra scritta proprio per suscitare pena per Fedra e tutte le altre.
Da una parte abbiamo il racconto mitico, scarno, a volte umano e molto, molto ‘terreno’, greve, come nelle storie di Venere e Ares, o delle interminabili e fantasiose avventure dell’insaziabile sessuomane Zeus; o miti spesso brutali, pensiamo alle storie di Pasifae, di Europa, delle varie nefandezze di Tieste, di Apollo e Marsia, del supplizio di Prometeo e del dolore di Medea stessa, o di Arianna abbandonata sullo scoglio, dall’altra l’elaborazione che ce ne giunge attraverso i poeti.
Sebbene si esca dai territori propri del mito, non posso non accennare alla Commedia, dove abbonda, sì, lo stereotipo misogino, (pensiamo, per tempi molto meno remoti, alle commedie del Machiavelli, per esempio) ma dove si trovano anche invenzioni poetiche come Lisistrata e lo sciopero del sesso. Ma tornando ai grandi tragici della classicità, ho riletto il dialogo tra Cassandra e il Coro, nell’ ‘Agamennone’: ho trovato che perfino uno spirito severo, talora quasi arcigno, come Eschilo, legato alla forza della Tradizione, al senso del Fato da una parte e della Giustizia divina dall’altra, ad Ananke e Nemesis, insomma, talvolta sa addolcirsi. Attraverso la voce del Coro, Eschilo mostra crescente commozione e solidarietà per la nobile Cassandra, ridotta schiava nel bottino di guerra di Agamennone. Emergono forse anche esitazione e dubbio nel condannare la furia vendicatrice di Clitennestra. La hybris continuamente esercitata contro le donne sembra suscitare in questi autori l’istanza di giustizia riparatrice, o almeno di equità, e mi sono trovata a pensare che essi vivevano, sì, in un mondo assolutamente maschilista, ma che quella sensibilità intelligente, nella Tragedia, la profonda intuizione emotiva degli eventi che travolgono le figure femminili, colpevoli, come Clitennestra, e forse Medea, o incolpevoli come Cassandra e Antigone, la pietas con cui quelle donne, già segnate dalla catena di colpe a loro precedenti, sono rappresentate ci fa dire che un’alleanza oltre la miope misoginia è possibile. [28] Dopo tutto quel che si è detto, con verità, sui miti che odiano le donne, e sul dominio maschile, il riconoscimento della sensibilità e della pietas maschile può suonare come un paradosso, e lo è. Tuttavia, mi sembra sia un fatto chiaro e importante per tutte/i che si può aprire un discorso con questo tipo di uomini, capaci di pensare le donne come soggetti senzienti e attivi, come individue uniche.
NOTE
[1] James Hillman, La vana fuga dagli dèi, Adelphi, MI, 1991 (On the Necessity of Abnormal Psychology: Ananke and Athena, Eranos Jahrbuch, XLIII, Eranos Foundation, 1974, 1985.
[2] Un volume recente sulla misoginia è Jack Holland, A Brief History of Misogyny, The World’s Oldest Prejudice, 2006, London, Robinson. Testo divulgativo, ma intelligente e ricco di citazioni; tenta anche una conclusione non catastrofica senza però molto successo.
[3] Euripide, Ippolito, nella bella traduzione moderna di Guido Paduano.
[4] Margaret Mead osserva che l’espansione verso ovest negli Stati Uniti richiedeva una diversa valutazione delle qualità femminili e che donne forti, di carattere, decise, diciamo donne di fegato, divennero sempre più accettabili » (Male and Female, Morrow, New York 1975, p. 225.Trad. it.Maschio e Femmina, II Saggiatore, Milano 1962).
[5] Karen Homey,The Dread of Woman, inFeminine Psychology, Norton, New York 1967; Wolfgang Lederer, The Fear of Women, Grone and Stratton, New York 1968; Philip Slater,The Glory of Hera, Beacon, Boston 1968
[6] A. Rich, Nato di donna, op.cit.
[7] Homey, op. cit., p.137
[8] Shearer, AnnAthene, Arkana,–Penguin Books, London 1998
[9] I testi di Legge Sacra dell’India – fra i quali spicca il Manavadharmashastra (“trattato di legge, dharmashastra, di Manu”, probabilmente compilato fra il II secolo B.C.E e il I C.E.) – (da Daniela Rossella).
[10] Tertulliano (ca.155-245 EV) De Cultu Foeminarum, infra; da http://www.womenpriests.org
[11] Dio supremo e creatore.
[12] Sottolineatura mia. Traggo dalla traduzione dal Sanscrito di D. Rossella.
[13] È di Pierre Bourdieu l’espressione ‘il dominio maschile’ (La domination masculine, Editions du Seuil, Paris, 1998) trad. italiana Alessandro Serra, Feltrinelli, Mi. 1999
[14] Edizioni Piemme, MI 2014, trad. dal tedesco da Cristina Proto
[15] Cfr. i 5 volumi della Storia delle donne in Occidente di Duby e Perrot, 5a ed. italiana Laterza, Bari 2003
[16] Stendhal, De l’amour, Livre II, Ch. 54, De l’éducation des femmes, 1822
[17] Esiodo, la Teogonia, trad. it.Daniele Bello
[18] Op. cit. p 23
[19] Eva Cantarella, L’ambiguo malanno, Editori Riuniti, Roma 2° ed. 1986
[20] Ibidem
[21] Leggo la Medea di Christa Wolf. I più antichi riti di fondazione prevedevano sacrifici umani.
[22] Knapp, Bettina L,Women in Myth, SUNY Press New York, 1997
[23] Ibidem, p. 48 sgg.
[24] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, MI,1975, ed It. Saggi BUR, 2006 corsivi nel testo. Eliade non mostra alcun interesse per Eva stessa, comunque.
[25] Robert Graves, I Miti Greci,ed. ital, Longanesi&Co, 1979
[26] Euripide, Ippolito, intro, trad e note Guido Paduano, BUR, 5° ed., MI 2010. Eva Cantarella scrive ‘ambiguo malanno’.
[27] Euripide, Ippolito, nella traduzione di Guido Paduano, op. cit.
[28] Nella mia Associazione e nel suo Centro Antiviolenza da anni ci confrontiamo con la violenza maschile. Negli ultimi anni abbiamo deciso di coinvolgere gli uomini nella riflessione su e la prevenzione di quella violenta misoginia.
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- Zanoni, Renzo, Il piccolo grande libro della mitologia classica.
NB. le traduzioni da Bettina L Knapp, e J. Holland sono mie (Virginia Del Re)