Misteri tibetani

Jacques Bacot (a cura di), Tre misteri tibetani, Milano, ObarraO edizioni, 2019

di Marilia Albanese

Il repertorio del teatro tibetano è estremamente scarno, dodici “misteri” di tradizione buddhista, tre dei quali – i più noti – sono stati tradotti da Jacques Bacot, uno dei più autorevoli tibetologi della prima metà del Novecento. Durante il suo viaggio in Tibet nel 1906 ebbe modo di vederli rappresentati nei cortili dei monasteri da monaci e da laici che interpretavano le parti femminili.

Nessun apparato scenico: erano l’arte degli attori e la loro mimica che delineavano lo scenario.

Articolati in narrazioni in prosa e dialoghi in versi di nove o sette sillabe, si avvalevano di un narratore per raccordare le varie fasi della rappresentazione mentre gli attori leggevano le loro parti su foglietti stampati o manoscritti. Ruolo notevole aveva anche il coro, i cui appartenenti – mascherati – interpretavano parti secondarie e arricchivano con passi di danza i momenti salienti.

Nella prefazione Bacot descrive con grande partecipazione lo svolgersi dell’azione scenica. In merito al re dice:

“La fine delle sue frasi è in un certo senso balbettata. L’ultima sillaba (in tibetano il verbo che racchiude l’idea) non può uscire in maniera volgare dalla sua bocca e precipitarsi: ma essa cade, separata, preziosa, come un favore ansiosamente atteso. E tutta la corte, in sospeso durante il discorso, raccoglie quest’ultima parola del re e la canta con lui. L’effetto è stupendo”.

Nella versione letteraria dei misteri manca tutta la parte coreografica e soprattutto il linguaggio corporeo che tanta parte hanno nella rappresentazione. Per quanto riguarda poi la traduzione, la ricchezza di registri del parlare tibetano rende impossibile la resa precisa dei termini. Il verbo “dire”, ad esempio, in tibetano conta almeno undici differenti modi di essere espresso. La forma scritta dei drammi non è vincolante, è piuttosto un canovaccio campione che viene reinterpretato ogni volta dagli attori.

Il primo dramma – termine da non prendersi nell’accezione tragica, ma nel suo significato primario di rappresentazione teatrale – è il Drime Kunden, ascritto al XVII sec., che riprende la storia del principe Vessantara, incarnazione precedente del Buddha storico. Animato da profonda compassione e carità, il principe distribuisce i tesori del padre, spalleggiato dalla virtuosa moglie e dal ministro buono, mentre quello cattivo si dispera. Alla fine, avendo regalato il miracoloso gioiello cintāmaṇi che esaudisce tutti i desideri a un re nemico, viene esiliato con moglie e figli, ma il suo spirito caritatevole lo induce a donare addirittura i suoi tre bambini e i propri occhi. Tutto finisce comunque per il meglio, con grande consolazione dei tibetani che hanno pianto per le sventure del principe mentre gli occidentali, nota Bacot, si sarebbero indignati per l’eccesso di carità: due letture diverse della rappresentazione che appartengono a due mondi culturali differenti.

Drowa Zangmo, più antico del precedente, è un racconto di fate, con la regina cattiva che è un’orchessa e quella buona che è una creatura divina la quale, tuttavia, non esita ad abbandonare i propri bambini tornando in cielo. I protagonisti della storia sono proprio i due fanciulli, perseguitati dalla regina orchessa e sfuggiti più volte alle sue insidie mortali, che alla fine la uccidono con il trionfo del bene sul male.

L’ultimo dramma, Nang Sel, è il più tardo dei tre, raffinato nella stesura, privo di personaggi o avvenimenti magici. È la storia di una fanciulla e della sua ricerca spirituale, in contrasto con la madre, pragmatica e terrena, che non comprende le esigenze mistiche della figlia. Sullo sfondo si delinea il paesaggio culturale e sociale del Tibet antico, che ancora permaneva agli inizi del secolo scorso, quando Bacot aveva visto e tradotto i drammi. La chiusura del commento che egli fa a Nang Sel stringe il cuore:

Nang Sel è un’opera edificante, di edificazione della fanciulla in particolare. Ha tutto il fascino e anche la ricercatezza un po’ piatta  che hanno spesso da noi questo tipo di opere. Ma si troverà qui un sapore peculiare a questo genere, se si pensa che Nang Sel è nata, letta e rappresentata in un paese ritenuto barbaro, inaccessibile, isolato dal mondo, coperto da deserti e ghiacciai, dove sono penetrati, equipaggiati in modo formidabile, solo pochi esploratori”.

Trent’anni dopo la pubblicazione di questo testo il Tibet veniva invaso dall’esercito cinese.