Topeng: maschere nell’isola degli dei

https://doi.org/10.55154/JKOG6747

PDF

Come citare

MASSEROLI Enrico, “Topeng: maschere nell’isola degli dei”, AsiaTeatro – rivista di studi online, anno 2023, n. 1, pp. 5-22.
https://doi.org/10.55154/JKOG6747

Abstract. Nel variegato panorama del Teatro Balinese possiamo definire il Topeng, a seconda della prospettiva, una liturgia spettacolare oppure un genere drammatico. Con le sue maschere il Topeng celebra le gesta delle antiche corti, ma la coreografia e il racconto si adattano ai luoghi e alle circostanze e allorché irrompono i Bondres (buffoni) la vicenda si inserisce nella quotidianità del presente. Enrico Masseroli, attore e regista, ha iniziato lo studio specialistico del teatro di Bali nel 1979 con il maestro I Made Djimat. Dirige l’ensemble teatrale “The Pirate Ship”.

Topeng: maschere nell’isola degli dei

di Enrico Masseroli

L’Isola – Teatro

Bali, piccola isola nell’arcipelago della Sonda, mèta tra le più frequentate del turismo esotico di massa, è rinomata per le originali e ricchissime arti sceniche, parte integrante di una tradizione rimasta, secondo la precisa e poetica definizione di Elémire Zolla[1], una “forma formante”, il cui fecondo respiro ha ritmato nei secoli la vita artistica e spirituale nel suo volo attraverso la storia.

Devozione religiosa (Agama Hindu Dharma) ed espressione estetica, sono tuttora gli assi portanti della vita sociale e culturale di Bali, nella quale sono fortemente integrati il culto degli antenati e l’animismo[2], antecedenti all’arrivo dell’Induismo e propri delle popolazioni autoctone di molte isole indonesiane.

Brevi cenni storici

Secondo alcune fonti, impossibili da verificare, l’induismo e con esso il buddismo, passando dal sud-est asiatico attraverso le grandi isole della moderna Indonesia, giunsero a Bali fin da dai primi secoli della nostra era. Più sicuramente regni induisti prosperarono dal secolo VIII fino al XIV allorché Bali divenne provincia del grande impero Majapahit, con centro in Giava. Alla sua caduta nel XVI secolo, conseguente alla graduale e pacifica espansione dell’Islam in tutta l’Indonesia, Bali rimase l’unico e tenace baluardo induista, dove le arti raffinate delle antiche corti trovarono un rinnovato splendore.

Il primo contatto con europei, documentato dal guardiamarina olandese Aernoudt Lintgens, avvenne nel 1597. Le tre navi di quella spedizione, dopo aver sperimentato ostilità nei porti di Giava controllati dai portoghesi, necessitavano approvvigionamenti. L’ospitalità di Bali e del suo re fu amichevole e generosa, e quando, dopo tre settimane i vascelli ripresero il mare, due membri dell’equipaggio restarono nell’isola. Per sua inconsapevole fortuna, nei secoli seguenti Bali restò ai margini dei lucrativi commerci coloniali. Annessa, a sua insaputa, nell’800 al regno d’Olanda, la sua conquista militare avvenne solo all’inizio del XX secolo, segnata dai famosi episodi di lotte e suicidi rituali puputan (il cui significato per esteso recita: la morte con onore in difesa della giustizia e della verità premiata col nirwana). Il dominio coloniale, dopo l’intermezzo della occupazione giapponese nella seconda guerra mondiale, sarà infine spazzato via: Bali diverrà provincia della Repubblica Indonesiana, la cui indipendenza, proclamata nel 1945, dopo tenace lotta, sarà ratificata dall’Olanda nel 1949. Da allora fino ai giorni nostri si declina la sua ascesa turistica, il volgersi da “Isola dei Demoni” in “Isola degli Dei”, un processo innescato negli anni ’30, allorché, grazie anche alla presenza di artisti occidentali geniali e appassionati (Walther Spies in primis), la tutela e il rinnovamento delle arti trova nei villaggi, nei loro banjar[3], e non più soltanto nelle corti, i suoi centri vitali.

Il Topeng e le sue maschere

L’uso di maschere come oggetti sacri in cerimonie rituali si suppone assai antico, medium per entrare in contatto con gli spiriti ancestrali e della natura, per rinsaldare il necessario equilibrio fra il mondo invisibile (Niskala) e quello visibile (Sekala).

Nel variegato panorama del Teatro Balinese possiamo definire il Topeng, a seconda della prospettiva, una liturgia spettacolare oppure un genere drammatico.[4] Se rito e spettacolo a Bali si intrecciano e confondono, la vera differenza sta nella collocazione e nell’intenzione di ogni rappresentazione: laddove gli spettatori primi sono gli Dei, scesi in visita nel corso di cerimonie sacre (categorie wali e bebali), si avrà il Topeng Pajegan, se invece il luogo sarà profano (lett. davanti al tempio) e l’intento primo quello di divertire gli spettatori umani (categoria balih-balihan), vedremo un Topeng Panca, o una sua contaminazione Topeng Prembon o Topeng Bondres, come descriveremo in seguito.

Le origini

Topeng letteralmente significa “qualcosa premuto contro (il viso)”. In indonesiano sta per maschera, mentre a Bali indica l’opera teatrale nel suo complesso ed i suoi personaggi; maschera, nel senso dell’oggetto in legno scolpito e dipinto, si dice tapel. È assai problematico, in una tradizione prevalentemente orale come quella balinese, risalire a notizie storiche certe, al di là di qualche figura scolpita tra gli alto-rilievi dei rari reperti archeologici. I Wayan Dibia e altri studiosi, citano come uno dei primi documenti che parli di spettacoli con maschere, il manoscritto Bebetin datato 896; una performance di Topeng è altresì menzionata in un lontar[5] del 1058… Ma oltre all’uso di maschere, che cosa poteva avere in comune col Topeng d’oggigiorno? Verosimilmente l’attuale Topeng prende la sua forma nel XVI secolo, età aurea di Bali, durante il regno del famoso Dewa Agung (grande Signore) di Gelgel Watu Renggong e dei suoi discendenti. Il babad Dalem[6] narra del ministro vittorioso Ularan, che porta in dono, come bottino di guerra dalla conquistata Blambangan nella parte est di Giava, delle maschere, alle quali l’erede, il re Di Made, insieme al ministro Gusti Jelantik, daranno vita, creando con esse uno spettacolo.

Templi perenni e antiche corti

Nelle antiche corti erano gli stessi principi-artisti a danzare e a dirigere le compagnie di attori e musicisti. Fino a quando il sistema della divisione in warna (colori/caste) rimase pienamente operante, la gerarchia sociale mostrata dal Topeng era legge: ad un sudra[7] non era consentito di interpretare il ruolo del re, vale a dire di uno ksatriya. Nel secolo scorso però, come abbiamo visto, la “democratizzazione” nelle arti andò di pari passo con il declino dei poteri feudali cortesi.

Tuttavia nel Topeng Bali continua a celebrare la propria storia ed i suoi eroi, dai quali discendevano le dinastie regnanti. La sua rappresentazione legittima l’affermarsi della cultura Indo-giavanese, degli “Wong Majapahit”, uomini di Majapahit, come tuttora si definisce la maggior parte della popolazione. Dunque è legittimo immaginare che fu anche un teatro di corte, attraverso il quale i sovrani celebravano la propria assimilazione con gli eroi mitici, loro antenati. I loro discendenti, sebbene non più regnanti, vivono tuttora in quegli stessi luoghi, teatro d’avvenimenti straordinari e talvolta inquietanti. L’attore di Topeng, nella scelta dell’episodio narrato, ne deve tener conto, per non rischiare di urtare la suscettibilità di chi lo ospita.

Ma quale può o potrebbe essere stato il rapporto genealogico tra rituale religioso e celebrazione cortese? il grande Maestro I Made Djimat ritiene decisamente che il Topeng sia nato nel tempio, portato sulla terra dalle stesse divinità, delle quali si imitarono movenze e costumi.

Il Topeng rituale e la sua scena

Il Topeng padjegan (lett.: mescolato) è parte integrante della ricca e variegata liturgia cerimoniale di Bali. La sua rappresentazione è prescritta in numerose celebrazioni: gli anniversari (odalan) degli innumerevoli templi, in ogni villaggio e famiglia; le festività che ritmano l’intreccio dei vari e complicati calendari balinesi, il principale dei quali (Pawukon) ogni 210 giorni culmina nelle celebrazioni del capodanno (Galungan); le cerimonie per i riti di passaggio: nascite, matrimoni, limatura dei denti, cremazioni… che scandiscono la vita terrena di ogni balinese.

La performance/rituale è normalmente (ma non tassativamente) officiata da un solo attore/sacerdote, medium che si lascia danzare, dopo aver consacrato le maschere e la scena con offerte e preghiere rituali. Nel ruolo di custode della memoria collettiva può essere assimilato al dalang (lo sciamano-narratore del Wayang Kulit, il teatro d’ombre). Lo spazio scenico si colloca in rapporto al concomitante contesto cerimoniale: in un cortile interno del tempio, nel passaggio tra gli edifici di un “compound” familiare, in uno spazio allestito nei pressi del cimitero, durante i rituali gnaben (cremazioni). Si danza/recita sulla nuda terra, talvolta tra le stagionali pozzanghere.

Il gamelan (orchestra) suona brani introduttivi, in un andirivieni affaccendato di donne che portano sul capo le ricche offerte, mentre lì accanto, simultaneamente, prendono il via i rituali dei sacerdoti e altre rappresentazioni, come il Wayang Lemak[8], la lettura cantata dell’epica indù (Mahabharata e Ramayana) e quant’altro richieda la liturgia di quella particolare cerimonia.

La scena è spoglia: su di una stuoia sopra un ampio tavolato, che funge anche da camerino all’aperto, l’attore dispone le maschere, che cambierà a vista, così come le corone, i copricapi ed i fiori ornamentali. Poco distante, assiso in posizione dominante, il Pedanda (alto sacerdote Brahmana) recita sommessamente il suo rituale, ritmato dalla gesticolazione danzata delle mani e dal tintinnare della campanella, che alla fine culminerà nella Bakti (la preghiera collettiva). Il loro è un orchestrato contrappunto: infatti l’attore deve prestare una attenzione speciale al suono della campanella dell’officiante, per essere pronto a dare un taglio risolutivo alla sua storia, facendo apparire l’ultimo ed il più importante dei caratteri, Sidha Karya[9], se il sacerdote sta concludendo il rito. La sua danza irruente e scomposta, la voce tonante, nobile ed autoritaria, il tremolio terrificante delle sue lunghe unghie, attraggono non solo gli spettatori curiosi, ma anche gli sfaccendati spiritelli demoniaci, distogliendoli così dall’importunare il sommo sacerdote nel momento finale della sua preghiera. Quindi, dopo aver scherzosamente spaventato i bambini, talvolta fingendo di rapirne uno, per lasciargli poi in dono caramelle e kepeng,[10] depone a terra un’offerta nel Jeroan, la parte più interna del tempio, per placare spiriti e demoni.

Lo spettacolo e le sue maschere

Non dimentichiamo che, al di là e ancor prima del soggetto letterario, il Teatro di Bali è “drama” (tardo latino, dal greco drâma, drân: fare, agire), dunque azione danzata, non racconto. In verità il “testo” principale, portante, invariabile di ogni spettacolo è la sua stessa struttura liturgica. Infatti, prima che l’intreccio cominci a delinearsi, annunciato da Penasar (gran ciambellano, arguto e sanguigno, è la figura chiave del Topeng), nella lunga parte introduttiva pengempat,[11] danzano i personaggi della corte, figure astratte, espressione pura e stilizzata della loro natura che si manifesta nel colore e nelle fattezze della maschera, nelle posture e nei gesti dell’attore. Infatti, sebbene le corti non esercitino più un reale potere, il loro modello ideale, dispiegato dal Topeng, manifesta una pregnanza simbolica che va ben al di là delle forme sociali “storiche”. Le maschere introduttive rappresentano archetipi, non personaggi narrativi:

Topeng Keras[12]: ad aprire le danze è il ministro, la sua caratterizzazione, guerresca e raffinata – chiamato anche patih (ministro) manis – è definita dal colore della maschera (rosso, ocra, bruno), dall’espressione degli occhi e della bocca, dalla gestualità e dalla corrispondente frase musicale che lo accompagna in “ostinato”.

Topeng Keras Lucu (buffo) Nella variante comica il viso è largo e tondeggiante, la bocca semiaperta in un sorriso stupito, il nostro ministro potrà essere allora un allegro buontempone, oppure stralunato, spaesato o gradasso…

Topeng Tua (vecchio): accompagnato da una lenta e raffinata melodia, l’anziano consigliere del re, ricco di nostalgici ricordi, dall’incedere lento e vacillante, non può celare gli acciacchi dell’età. La sua maschera, dai lunghi baffi bianchi, può avere colori chiari e sfumati.

Penasar: preceduto dal suo canto rituale fuori scena, entra il gran ciambellano, che disegna la scena con una danza allegra ed irruente, mettendo infine a tacere l’orchestra per annunciare il re, con voce stentorea ed una risata bonaria. La mezza maschera del Penasar kelihan (anziano, senior) dai grandi occhi sporgenti, ha un’espressione decisa, cordiale e rassicurante ad un tempo.

Topeng Dalem o manis: il re, può iniziare danzando da seduto, come su di un trono. Modello divino, sospeso fra cielo e terra, contempla e dispone. Simbolo di perfezione, equilibrio e purezza, è figura androgina: la sua danza unisce le vigorose pose maschili (torso e braccia) alle sinuose ed eleganti movenze femminili (bacino e gambe).

I personaggi nobili non usano mai la parola (la loro maschera copre l’intero volto) si esprimono solo con la danza, estremamente raffinata e codificata. Le loro coreografie denotano variazioni stilistiche secondo le aree geografiche e le varie scuole. Nei dialoghi, sono i servitori (Penasar e il fratello Wijil (penasar cenikan), a pronunciare le parole dei loro signori, in kawi, l’antico giavanese della letteratura, sconosciuto ai normali spettatori e quindi subito tradotto nelle lingue balinesi (alus/raffinato o lumrah/popolare, a seconda del “colore”, la casta di chi ascolta). In questo modo il Topeng traccia il ponte fra la cultura indo-giavanese delle corti e quella assimilata, indo-balinese, del popolo.

Ma lo spettacolo non è solo una rievocazione storica, di vitale importanza per l’attore è cogliere gli spunti per inserirlo nella realtà spazio-temporale del presente. Dovrà allora rendere unica la sua performance, considerando e componendo tre elementi: desa (villaggio, ovvero il luogo), kala (il tempo) e patra (la situazione, il contesto). Così il racconto dell’episodio prescelto sarà intercalato o addirittura destrutturato da libere digressioni, ispirate all’attualità o alla comunità ospitante, condite da commenti ameni e giochi di parole innescati dalla laboriosità delle “traduzioni”.

L’aura solenne e ieratica che aveva permeato la scena nella prima parte, si dirada del tutto, allorché irrompono i Bondres (buffoni), comiche e grottesche caricature di popolani. Personaggi autonomi, non hanno nulla a che vedere con l’episodio storico, le loro improvvisazioni e lazzi, buffi, ironici, scurrili, simili talvolta a quelli della “Commedia dell’Arte”, ricacciano nella quotidianità. Non hanno movimenti di danza definiti e stilizzati come i nobili, godono bensì di assoluta libertà espressiva e danno sfogo alla vena creativa degli intagliatori e degli attori, che possono sfoggiare i loro “cavalli di battaglia”. Quali e quanti Bondres entrino in scena dipende dunque dall’attore protagonista. Ne citiamo alcuni tra i più popolari: bondres Bongol, alquanto sordo ma eccellente cantante; bondres Keta, zoppo e balbuziente a causa di un incidente stradale; bondres Bues, bullo, arrogante ed ubriacone; bondres Pasek, vecchio capo villaggio, cordiale e nostalgico; bondres Cungih, dai denti vistosamente irregolari e sporgenti, usa arguti giochi di parole per scansare i doveri civici e snobbare le autorità; bondres Nyoman Semariani, irrimediabile zitellona dai tratti scimmieschi, si pretende danzatrice affascinante ed irresistibile.

Assistendo ad uno spettacolo di Topeng non è sempre facile capire o essere informati sul particolare episodio rappresentato. Talvolta nemmeno gli spettatori balinesi lo sanno individuare, tanto la trama è sopraffatta dalle divagazioni farsesche dei personaggi comici. L’epilogo, quando arriva, contempla il duello tra i principi antagonisti, oppure la vicenda si risolve con un’agnizione, un ricongiungimento amoroso, o in virtù di un evento miracoloso. Infine, come abbiamo ricordato sopra, solo Dalem Sidha Karya può concludere la cerimonia. Il colore bianco della maschera, con un vistoso terzo occhio rappresentato da una pietra incastonata in fronte, denota regalità e purezza, è simbolo di Shiva, tuttavia il ghigno dai denti sporgenti ed il continuo vibrare delle lunghe unghie calzate sulle dita, ostentano un’aura demoniaca. In alcune rare occasioni, in relazioni con la festività rituale associata, si potrà mostrare con la maschera scura di Sidha Karya Selem, simbolo Buddista.

Teatro, Musica e Danza

I canovacci delle storie del Topeng attingono ad un repertorio letterario tramandato nei Babad, le cronache genealogiche dei raja di Bali, storicamente circoscritto dalla conquista giavanese – impero Majapahit – nel XIV secolo, alla successiva “età dell’oro” balinese, XVI-XVII secolo. Alcuni racconti si riferiscono a fatti e personaggi dell’antica Giava e li ritroviamo nel repertorio popolare di entrambe le isole. Bali è considerata la viva custode della raffinata cultura della Giava induista, la grande isola che dopo la caduta di Majapahit gradualmente si ritrovò convertita all’Islam. Dal XVI secolo, insieme al procedere parallelo del colonialismo, i loro destini furono del tutto separati.

La musica

Le maschere del Topeng si animano secondo un codificato linguaggio scenico, guidando nella danza l’accompagnamento musicale, adattatosi nella strumentazione al corso dei tempi. Negli anni Trenta del secolo scorso, un’intensa rivoluzione stilistica pervase profondamente la scena balinese. Da allora il Gamelan Gong Kebyar, dagli acuti toni squillanti ed il fraseggio veloce – nato per nuove musiche e forme coreografiche, che poco hanno in comune con il Topeng – ha sostituito quasi dovunque il Gamelan Gong Gedè, dal timbro grave e cerimoniale. Nondimeno capita ancora in alcuni villaggi di ascoltare l’arcaico Gamelan Anklung (la cui ottava conta solo quattro note, anziché cinque), accompagnare il Topeng, senza apparenti difficoltà.

È l’attore/danzatore che dirige l’orchestra, assecondato dal suonatore di kendang (tamburo), che trasmette le indicazioni agli altri 25-30 musici del gamelan. Tecnicamente la sua è un’improvvisazione strutturale, la cui cornice ritmico musicale è saldamente definita ed elaborata nei personaggi nobili, mentre diviene assai più semplice nei buffoni, la cui entrata è spesso annunciata dal batel (una sola nota ribattuta in “ostinato”).

Ogni personaggio, carattere o tipo, ha una propria linea melodica. Ciò non significa che ogni gamelan accompagni la stessa maschera allo stesso modo. Nelle arti sceniche di Bali è la struttura ad essere codificata. Le sue forme si sviluppano in varianti e ornamentazioni che rendono unico ogni gamelan (anche nell’intonazione!) e unica ogni rappresentazione, anche di uno stesso performer con la stessa orchestra, perché la coreografia ed il racconto si adattano agli spazi e ai luoghi, alle circostanze ed all’episodio prescelto.

Ci piace ricordare che quando domandammo chi avesse composto la raffinata e stupenda melodia che accompagna la danza del re (Topeng Arsa Wijaya), ci fu risposto che era anonimo: un tempo l’autore non osava apporre il proprio nome alla sua composizione, considerandola ispirazione e dono divino.

Ci è giunta pure voce di antichi Topeng dove solo il tamburo, i grandi gong ed i ceng- ceng (piccoli cembali) accompagnavano la danza, senza l’ausilio di strumenti melodici.

I costumi

Il costume, unico per tutti i personaggi, ricalca quello dei personaggi nobili del Gambuh, il dramma danzato più antico di Bali, considerato, sia per le posture ed i movimenti della danza, sia per la musica, la fonte, il seme da cui sono germogliate tutte le altre ricche forme della scena balinese.

Abbiamo notato nelle ultime decadi, tessuti e ornamenti farsi vieppiù imponenti e sontuosi e la loro produzione artigianale farsi vieppiù meccanizzata. La vestizione procede dai pantaloni bianchi, sotto al ginocchio i polpacci sono stretti da stewel (di stoffa vellutata riccamente decorata), quindi il corpo è avvolto in un manto bianco, fermato sotto le ascelle e stretto in vita da una cintura, drappeggiato in modo da lambire il terreno in mezzo ai piedi, ovviamente nudi; dietro le spalle è infilato il Kris, la daga sacra; vi si appoggia l’ampio manto, dalle sontuose decorazioni dipinte con oro; quindi si infila il giubbino, nero o porpora, con le maniche strette ai polsi dai ricamati gelang kana; dalle spalle scendono ampie frange colorate e dorate; sotto il mento una doppia ampia e ricca gorgiera. Nella danza hanno una particolare pregnanza i gesti dell’attore che, in modo conforme alla maschera interpretata, afferra, mostra o sposta parti del costume.

Ogni maschera ha un corrispettivo copricapo: ricche corone di cuoio intagliato e dorato, arricchite di pietre preziose ed abbellite con fiori, per i personaggi nobili; semplici drappi o fazzoletti annodati per i popolani. Raramente qualche oggetto compare sulla scena: il bastone per il personaggio dell’anziano Pedanda (sacerdote), la bottiglia di plastica del buffone che fa la caricatura del turista perennemente assetato, un piccolo Kris dai magici poteri nella storia di Dalem Bungkut

Topeng profano

Fuori dal tempio lo spettacolo impone le sue esigenze. Ecco allora il Topeng Panca (cinque, dal sanscrito), dove più attori (non tassativamente cinque), dopo aver concertato il canovaccio, si alternano nei ruoli, agendo in scena anche simultaneamente. La drammaturgia è dunque più elaborata e gli attori sfoggiano il loro particolare talento nelle vesti di questo o di quel personaggio. Siamo solitamente sul palco del wantilan (padiglione), davanti al Pura Desa (il tempio centrale del villaggio). La scena è riccamente addobbata per l’occasione: grandi ombrelloni bianchi e colorati ed alte, lunghe, sottili bandiere ai lati del sipario-fondale, che l’attore agita e scuote prima di entrare in scena. In alto, allineate lungo tutto il sottotetto sono appese file di foglie finemente sagomate ed intrecciate, secondo gli stilizzati motivi tradizionali. Sedie allineate davanti al palco per gli spettatori illustri, tutt’intorno warung (piccoli bar-ristorante) e singoli indaffarati venditori di cibi, bevande, frutta, dolci e sigarette…. Ci sentiamo “a teatro”, in una barocca festa tropicale. Sulla scena, accanto al pomposo e orgoglioso Penasar Kelihan, qui chiamato Punta, non mancherà il suo arguto e loquace fratello minore Wijil, il Penasar Cenikan, qui chiamato Kartala, a comporre la classica ed universale coppia comica, che ritroviamo, sotto diverse spoglie, dal teatro d’ombre balinese e giavanese, al circo con Augusto e Clown bianco, fino al cinema con Laurel & Hardy. In rapporto al contesto l’apparizione finale di Sidha Karya può non essere necessaria.

Contaminazioni e intrecci

Assai in voga nelle ultime decadi, come intrattenimento per lo più profano, ma non solo, il Prembon è un intreccio tra Topeng e Ardja (una specie di “opera” balinese). La contaminazione fra i due generi segue l’evoluzione e le mode del gusto popolare. Accanto alle maschere troviamo le cantanti-danzatrici, che esibiscono i loro acuti gorgheggi o attori “en travesti” sapientemente truccati, in un’atmosfera dove il dramma si stempera presto in farsa.

Topeng bondres è una forma di puro intrattenimento dove intervengono solo personaggi comici. Recente nella sua ideazione può essere rappresentato in occasione di feste famigliari, dove agli ospiti si offre insieme il cibo un intrattenimento spettacolare.

Divulgazione turistica

A differenza di altri famosi spettacoli del teatro di Bali, come il Legong Kraton, le moderne danze Kebyar, il Kecak, il Barong, che al di là della loro collocazione religiosa, si mostrano in consolidate versioni turistiche, il Topeng, a causa della centralità della componente linguistica, rimane in questo ambito assai meno sfruttato.

Da segnalare il museo ARMA ad Ubud, che negli anni pre Covid proponeva settimanalmente “Topeng Djimat”, un Topeng Panca guidato dal prestigioso maestro. Non è raro comunque trovare in spettacoli miscellanei per turisti detti Tari lepas¹⁴, la danza di un personaggio del Topeng, di solito il Topeng Tua (il vecchio).

Il Topeng e le donne

Nelle ultime decadi, in linea con i cambiamenti sociali e culturali che hanno attraversato tutto il mondo, anche a Bali le donne hanno cominciato ad avere una diversa consapevolezza di sé e del loro ruolo sociale.

Tradizionalmente la donna balinese si occupa della casa e dei figli, della laboriosa preparazione delle offerte quotidiane, nondimeno molte di loro lavorano, nel commercio, nella ristorazione, in tutti gli ambiti amministrativi e produttivi. Secondo il diritto di famiglia i figli appartengono al padre, per cui una vedova se si risposa rischia di perdere i figli, che possono essere reclamati dalla famiglia del defunto marito. Il divorzio può essere richiesto da entrambi i coniugi. Tradizionalmente consentite, previo il consenso del primo coniuge, sia la poligamia che la poliandria, oggigiorno sono pressoché scomparse. Le donne non possono essere consacrate Pedanda (sacerdote bramino) ma la moglie, che sempre assiste il marito nei riti, rimasta vedova ne prende il posto. Parimenti la moglie di un sacerdote Mangku ne condivide titolo e funzioni.

Tradizionalmente il teatro di Bali contempla danze femminili, danze maschili (il Topeng fra queste), ruoli maschili interpretati da donne e viceversa. La musica era un regno esclusivamente maschile, ma a partire dagli anni ’80 iniziarono gamelan di donne e oggigiorno non è raro vedere gruppi misti. Nella seconda metà degli anni ’90 nacquero i primi gruppi femminili di Topeng, con alterne fortune.

Il dibattito è tuttora aperto, al momento ad esempio non è ammissibile per una donna interpretare la maschera sacra di Sidha Karya. Un tabù legato alla convinzione dell’impurità della donna quando ha le mestruazioni, allorché non può accedere al tempio e prendere parte ai rituali.

Le altre maschere

Nel teatro di Bali ci sono altre maschere, non assimilabili, né di regola mescolabili con quelle del Topeng. Nel Wayang Wong (lett. “figure umane”), dramma danzato che racconta episodi del Ramayana, sono agganciate ai ricchi copricapi di cuoio lavorato e dorato. Accanto alle raffigurazioni dei protagonisti, troviamo diverse maschere di animali, elaborate in forme fantasiose e fantastiche. Più realistiche e teneramente rassicuranti le rane, interpretate soprattutto da bambini, che animano il Genggong, fiaba danzata di un principe ranocchio. Ci sono le sacre e uniche maschere femminili del Legong di Ketewel, considerate molto antiche, le sole a Bali ad avere una sporgenza dietro la bocca per essere afferrate coi denti, caratteristica delle maschere giavanesi, anziché essere sostenute da un elastico fissato ai lati, che passa attorno alla nuca, come nel Topeng. Le numerose forme di Barong, animali fantastici e divini, sacri protettori della comunità. Tra loro il più famoso è il Barong Ket, al quale nel dramma rituale Calon Arang si contrappone Rangda (la vedova/Durga), le loro maschere sacre, custodite nascoste alla vista, escono solo il giorno della celebrazione spettacolare.

Accanto a loro troveremo anche Djauk (demoni) e Telek (dee). Infine i Barong Landung: le grandi maschere delle marionette giganti Jero Luh (donna chiara dai tratti cinesi) e Jero Gedè (uomo scuro dai lineamenti decisamente balinesi), antenati mitici, portate in processione in particolari occasioni, secondo la leggenda del XII secolo, vestigia di un antico rapporto culturale con la Cina.

L’artista/artigiano

Le maschere del Topeng, appositamente scolpite per l’uso cerimoniale, assai diverse, nonostante l’apparenza, dalle dozzinali imitazioni vendute nei negozi turistici, richiedono una lavorazione molto accurata. Basti considerare che i colori tradizionali, preparati esclusivamente con sostanze e pigmenti naturali, saranno stesi fino a 40 volte (il bianco), per poter raggiungere la particolare lucentezza e resistenza. Purtroppo oggigiorno anche i più accreditati maestri si sono adattati, per ridurre i tempi e soprattutto i costi, altrimenti improponibili, alle più comode vernici acriliche. I migliori intagliatori conoscono essi stessi i movimenti dei loro personaggi e non accetteranno un’ordinazione, se non avranno a disposizione tutto il tempo necessario. Vogliamo ricordare tra loro I Wayan Tangguh di Singapadu, scomparso nel 2015 all’età di 92 anni, persona semplice e riservata dal talento insuperabile, e Dewa Gede Mandra, che continua a Batuan la tradizione del padre Dewa Putu Kebes. Nel vicino villaggio di Mas troviamo poi altri eccellenti artisti che, ad uso dei collezionisti, si lanciano in ardite contaminazioni e creazioni originali.

Il legno sacro

Per essere usate nelle cerimonie le maschere sacre devono essere purificate, per togliere tutte le impurità accumulatesi durante la fabbricazione. Grazie alle offerte, la maschera diviene tenget, carica di energia divina e può sposare l’energia creatrice taksu – in occidente diremmo “stato di grazia” – che colma l’attore impeccabile e ispirato. Ma prima ancora, è dal momento in cui il pezzo di legno pregiato (dal tenero e forte albero pule) viene reciso – in un giorno propizio, stabilito dal sacerdote che conosce i complicati intrecci dei numerosi calendari balinesi – e consacrato con i prescritti rituali, che la maschera del Topeng inizia a vivere, per divenire immagine e forma di un archetipo.

“Se un Occidentale indossa una maschera, pretende di essere un altro. Quando un attore balinese indossa una maschera, diviene un altro.”[13]


BIBLIOGRAFIA

ARTAUD Antonin “Sur le théâtre balinaise” in Le théâtre et son double, Paris, Gallimard, 1964

DANIEL Ana, Bali behind the mask, New York, Alfred a. Knopf, 1981

DIBIA, I Wayan, Topeng a masked dance theatre of Bali, Denpasar, Institut Seni Indonesia (ISI), 2008

EISEMAN Fred B. Jr, Bali Sekala & Niskala, Vol I & II, Hong Kong, Periplus editions, 1989; reprint Tōkyō, North Clarendon, VT, Tuttle Publishing, 2009

KODI, I Ketut, MASSEROLI Enrico, “Topeng Sidha Karya: rito e spettacolo fra agnizione ed esorcismo”, Quaderni Asiatici n. 132, dicembre 2020

McPHEE Colin, A house in Bali, London, Gollancz, 1947; reprint Singapore-Hong Kong- Indonesia, Periplus Editions, 2002

SCOLARI GHIRINGHELLI Vanna, “Le maschere di Bali. Teatro e rituale”, AsiaTeatro – rivista di studi online, annate 2011-2021, https://www.asiateatro.it/asie/indonesia/bali/maschere-di-bali/

SLATTUM Judy, SCHRAUB Paul, Balinese Masks Spirit of an Ancient Drama, San Francisco, Chronicle Books, 1992; reprint Tōkyō, North Clarendon, VT, Tuttle Publishing, 2003, 2012

SPIES Walter, DE ZOETE Beryl, Dance and Drama in Bali, London, Faber & Faber limited,1938; reprint Kuala Lumpur, Oxford University Press, 1973

VICKERS Adrian, Bali a paradise created, 1989; reprint Tōkyō, North Clarendon, VT, Tuttle Publishing 2012

YOUNG Elisabeth Florence, Topeng in Bali: Change and Continuity in a Traditional Drama Genre, University of California Press, 1980.


Note

[1] Elèmire Zolla, Conoscenza Religiosa 2/1978, fascicolo speciale dedicato a Bali. Riportato in ZOLLA E., Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, a cura di G. Marchianò, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006.

[2] Credenze e pratiche, come i rituali di possessione (trance), confluiti nella religione indo-balinese a sua volta integrata nella indo-giavanese, con la conquista di Bali da parte dell’impero Majapahit (XIV secolo), assimilazione non condivisa dalla esigua minoranza dei Bali Aga. che conservano e praticano differenti rituali.

[3] Banjar: organizzazione sociale che raggruppa un certo numero di famiglie, il cui democratico consiglio ne regola e organizza le attività. Ogni villaggio è suddiviso in vari banjar. Vedi W. Spies – B. De Zoete, Dance and Drama in Bali, London 1938, reprint Oxford University Press, 1973.

[4] Nel secolo scorso gli studiosi hanno suddiviso le arti dello spettacolo in tre categorie: wali, bebali e balih-balihan. Le arti wali includono tutte le forme d’arte sacra e religiosa che vengono tradizionalmente eseguite come parte integrante delle cerimonie. Le arti bebali, solitamente di natura drammatica, vengono messe in scena per completare le cerimonie. Le arti balih-balihan, non religiose o secolari, vengono eseguite come intrattenimento pubblico, anche senza prescrizioni di tempo e/o di spazio. (DIBIA I Wayan, “TOPENG a masked dance theatre of Bali”, Denpasar, Institut Seni Indonesia (ISI), September 2008)

[5] Lontar: libri sacri scritti su foglie di palma.

[6] Babad: le antiche cronache delle gesta dei re di Bali, dalle quali il Topeng attinge il suo repertorio.

[7] Sudra: coloro che, per nascita, sono al di fuori dei Triwangsa, le tre caste nobili (Ksatriya, Brahmana, Wesya). Erano per la maggior parte contadini e rappresentano ca. l’80% della popolazione. La parola casta, di origine portoghese, ha la connotazione di “divisione”, anziché quella di “ordinamento”, suggerito invece dal termine sanscrito Warna, che letteralmente significa colore.

[8] Teatro con le figure in cuoio dipinto del Wayang Kulit rappresentato senza lo schermo, perché officiato di giorno.

[9] Letteralmente “colui che sa fare il lavoro”, ovvero sa portare a termine la cerimonia. Dalem Sidha Karya è la divinizzazione di Brahmana Ida Sangkya protagonista di un famoso episodio accaduto nel XVII secolo, l’età dell’oro di Bali, al tempo del re Watu Renggong. Scacciato da una grande cerimonia perché considerato uno straniero pezzente, la disgrazia s’abbatte sull’isola, ma una volta richiamato e riconosciuto, sarà lui a concludere la cerimonia interrotta, riportando il benessere sull’isola. Una storia emblematica sulla sacralità dell’ospite, sempre d’attualità! Secondo un’altra fonte la maschera nasce ancor prima del personaggio nel XIV secolo dall’espressione Dalem Jangus (re dai denti sporgenti) attribuita al ministro Gaja Mada.

[10] Antiche monete cinesi forate al centro, tuttora usate nelle cerimonie.

[11] Empat (quattro), perché i personaggi sono generalmente 4, ma viene anche chiamata penglambar (introduzione) o penamprat (l’inizio).

[12] Nel teatro/danza di Bali, si danno due principali qualità espressive: keras (forte, rude) e manis (dolce, raffinato). Questa distinzione, tipica della cultura balinese che tende a bilanciare ed armonizzare le polarità, si ritrova nella terminologia del Topeng.

[13] Cit. da F. Eiseman, Bali: Sekala & Niskala, Hong Kong, Periplus Editions, 1989


Avvertenza

Questo articolo è una versione riveduta e ampliata dell’intervento già pubblicato negli atti del convegno Lo spirito della maschera. Testimonianze dall’Asia e dall’Africa, a cura di Susanna Marino, Centro di Cultura Italia-Asia “G. Scalise”, 2015. Le immagini sono tratte dall’archivio fotografico dell’autore.