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Lhamo – Teatro del popolo, teatro degli dèi
Norbu Tsering: ACHE LHAMO IS MY LIFE
“Il teatro tibetano si propone come un paradosso positivo: un sistema espressivo arcaico, forse il teatro vivente più antico del mondo, mostra alcuni aspetti di sconcertante attualità (attualità, con riferimento ad alcune fondamentali istanze delle avanguardie novecentesche, e non modernità, ché anzi qui si prefigura una netta alterità rispetto al teatro realistico-borghese).
Per tratteggiare questi aspetti una digressione utile è quella [..] relativa alle analogie e differenze tra il lhamo e il teatro ellenico. Nel quadro generale dell’antropologia tibetana, caratterizzata dallo sviluppo peculiare di un buddhismo che la pervade in tutti i suoi aspetti, un primo sguardo sommario permette di stilare un indice di temi da esaminare con attenzione: scopo precipuo di questo teatro è la celebrazione e rifondazione periodica della comunità; questa istanza tuttavia non esclude la presenza di elementi critici; lo specifico teatrale trova il proprio senso all’interno della cornice festiva e di quella rituale; quest’arte richiede di essere realizzata, più che da attori-interpreti in senso stretto, da artigiani e performer che si prendono cura di tutti gli aspetti dell’attività teatrale e soprattutto della sua continua “attualizzazione”, mentre l’eccellenza professionale non esclude l’esercizio di altre attività; la creazione di un tempo dalla consistenza speciale (holy days, giorni santi), di cui la durata degli eventi è solo un indicatore; la conformazione del luogo teatrale, il theatron come luogo in cui ci si reca a vedere, ma anche luogo di iniziazione e di rivelazione continua; arte scenica che intreccia canto, danza e recitazione, spettacolo i cui contenuti, in particolare il logos giudicante o asseverativo, sono rimessi in gioco dall’artificio dei significanti; l’uso della maschera, che è tale anche quando non appare, perché i personaggi sono innanzitutto tipi, o individui, e i loro tratti psicologici non rimandano a caratteristiche “personali”; una drammaturgia basata sul mythos, sulla fiaba di magia (non la favola a sfondo morale), apportatrice di trasformazione; e il fine, che Giuseppe Tucci indica con il termine «revulsione», anziché catarsi, per indicare lo stato nuovo cui si accede attraverso la comprensione istruita da un piano simbolico, una comprensione totale, in un certo senso fisica e trasfigurante.”
da “Teatro del popolo, teatro degli dèi” di Antonio Attisani
AsiaTeatro ringrazia per questa sezione sul Tibet il professor Antonio Attisani.
Tra i suoi libri: “Il teatro del Tibet”, Roma, Stampa Alternativa, 1993; “Fiabe teatrali del Tibet”, Corazzano, Titivillus, 1996; “Teatro come differenza”, Milano, Feltrinelli, 1978 e Ravenna, Essegi, 1988; “Oltre la scena occidente”, Venezia, Cafoscarina, 1995 e 1999; “A ce lha mo: studio sulle forme della teatralità tibetana”, Firenze, Olschki, 2001; “Un teatro apocrifo: il potenziale dell’arte teatrale nel Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards”, Milano, Medusa, 2006; “Smisurato cantabile: note sul lavoro del teatro dopo Jerzy Grotowski”, Bari, Edizioni di Pagina, 2009; “Actoris Studium – Album # 1 – Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre”, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009. Ha pubblicato con Mario Biagini “Opere e sentieri”, una raccolta di scritti di Grotowski (3 voll.), Roma, Bulzoni, 2007-2008.