Trucco degli attori

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Il keshō (ossia il trucco dell’attore nel kabuki), prevede che i volti di onnagata e ragazzi siano coperti solo di bianco, essendo il bianco il colore per eccellenza della bellezza femminile e della delicatezza della gioventù. Gli onnagata hanno volto bianco, mani e braccia imbiancate e indossano tabi bianchi ai piedi. Unica concessione al trucco, le labbra rosse, una pennellata di rosso agli angoli degli occhi e le sopracciglia disegnate più in alto del naturale (tsukuri mayu). Si tratta del trucco usato anche dalle geisha e dalle oiran (le grandi cortigiane del periodo Edo): come base bintsuke abura, cera che si spalma su viso e collo, indi oshiroi, polvere bianca mescolata ad acqua e kyōbeni, rosso di Kyōto ricavato dal benibana, il fiore di cartamo.

Come osserva Roland Barthes: “Il volto teatrale non è dipinto (imbellettato): è scritto.

Il trucco dello onnagata.

Questo volto teatrale (mascherato nel Nō, disegnato nel Kabuki, artificiale nel Bunraku) è composto di due sostanze: il bianco della pagina e il nero dell’iscrizione (riservato agli occhi). Il bianco del viso sembra avere la funzione, non tanto di snaturare la carnagione, o di farne una caricatura (com’è il caso dei nostri clown), ma soltanto quella di cancellare la traccia anteriore dei lineamenti, di ridurre la faccia alla distesa vuota d’una stoffa opaca, che nessuna sostanza naturale (farina, biacca, gesso o seta) riesce metaforicamente ad animare di un neo, d’un fremito di dolcezza o d’un riflesso. La faccia è soltanto la cosa da scrivere: ma questo futuro è già scritto, esso stesso, dalla mano che ha cosparso di bianco le sopracciglia, la sporgenza del naso, la superficie delle guance e che ha impresso alla pagina di carne il limite nero d’una capigliatura compatta come pietra. Il biancore del viso (…) sta a significare ad un tempo due movimenti contraddittori: l’immobilità (che noi “moralmente” chiamiamo “impassibilità”) e la fragilità (che noi, nello stesso modo, ma senza maggior successo, chiameremmo “emotività”). Non sopra questa superficie, ma impressa, incisa in essa, ecco la fenditura perfettamente allungata degli occhi e della bocca. (…) gli occhi s’affacciano direttamente sul viso, quasi fossero il fondo nero e vuoto della scrittura, “la notte del calamaio”. E ancora: il viso è teso come una coltre verso il nero pozzo (ma non “scuro”) degli occhi. Ridotto ai significati elementari della scrittura (il vuoto della pagina e la cavità dei suoi incisi) il volto congeda ogni significato, vale a dire ogni espressività: questa scrittura non scrive nulla (o meglio, scrive “nulla”); non soltanto non si “presta” (termine innocentemente contabile) ad alcuna emozione, ad alcun senso (neppure quello dell’impassibilità, dell’inespressività) ma addirittura essa non imita alcun carattere: il travestito (poiché i ruoli femminili sono interpretati da uomini) non è un ragazzo mascherato da donna con grande ricorso a sfumature, a tocchi veristi, a costose simulazioni. E’ un puro significante (…). Un puro significante semplicemente “assentato” (sottratto). L’attore, col suo viso, non recita la donna, né la imita, ma soltanto la significa.”[1]

Risulta evidente che per Barthes il biancore del volto è funzionale al lavoro dell’onnagata: egli, in quanto significante della donna, non può prescindere da questa riduzione del proprio volto a pagina bianca. Se così non facesse, se si imbellettasse utilizzando tutte le tecniche femminili del trucco, finirebbe con lo scimmiottare la donna, rendendone la caricatura.

Sul volto dei personaggi maschili, invece, si stendono, quasi sempre su base bianca, le linee che ne fisseranno l’espressione sotto la luce dei riflettori, rendendo evidenti i sentimenti che li animano: il blu per la calma, il rosso per la collera, il coraggio, l’ostinazione, il grigio per la tristezza, il viola e il nero per la paura o la malvagità, il porpora per la superbia, il marrone per l’egoismo, il verde per la tranquillità e per caratterizzare fantasmi e demoni. [2]

Trucco per Shibaraku.

Occorre a questo punto osservare lo stretto rapporto esistente fra trucco e luce artificiale: oltre a ricordare che in origine gli spettacoli avvenivano di giorno, quindi alla luce naturale (e l’illuminazione per mezzo di candele era riservata alle rappresentazioni che si concludevano dopo il crepuscolo), occorre tener presente che esisteva una particolare forma di illuminazione del volto dell’attore chiamata sashidashi e che creava uno speciale effetto, come di un riflettore che “sparasse” sul viso dell’attore. Questo effetto veniva ottenuto per mezzo di una candela schermata sistemata su di un lungo supporto retto da un kōken (servo di scena) davanti all’attore. In questo modo veniva esaltata in alcuni momenti particolari della performance l’espressione del viso, opportunamente truccato, dell’attore, sottolineandone i sentimenti. Tale effetto è ora ottenuto per mezzo dei moderni riflettori.

Il tipo di trucco più spettacolare è sicuramente il kumadori (kuma, linea e dori da toru, disegnare) di cui esistono centoquindici varianti (solo una dozzina ancora utilizzate), che esalta la muscolatura facciale con linee esagerate, forti, che si sviluppano soprattutto attorno al naso e agli occhi. Il kumadori è il trucco dello stile aragoto e venne creato da Ichikawa Danjūrō I (1660-1704) nel 1673, al Nakamuraza di Edo.

I colori maggiormente utilizzati per il kumadori sono il rosso, il blu e il nero. La base è sempre bianca e su quella le linee colorate vengono tracciate e poi sfumate con olio di camelia, kōyu, per una resa ottimale apprezzabile anche dal pubblico più lontano. Ogni tratto è codificato dalla tradizione ma ciascun attore apporta un contributo personale, quello della sua fisionomia individuale, dei suoi muscoli facciali, che vengono sottolineati dai tratti di pennello. Il volto dell’attore si trasforma così in una maschera che oltre al mistero possiede in più la mobilità: si fissa così sul suo viso la passione, il sentimento primario che lo muove, che lo spinge all’azione. Questo e non altro viene rivelato dal trucco kumadori. Tutto è già stato formalizzato in passato, perciò anche questo segno viene interpretato correttamente dal pubblico di intenditori ed appassionati che ne riconosce lo stile, ne ricorda il nome.

Trucco per Yoshitsune senbonzakura.

È proprio riguardo al kumadori che il celebre designer Tanaka Ikkō sottolinea l’importanza dell’associazione del rosso con il bianco nella cultura estetica giapponese.[3] Se infatti sin dall’antichità il bianco è il colore della purezza e dell’innocenza (si pensi ai gohei, gli ornamenti sacri di carta bianca delimitanti le aree sacre nello Shintō), il suo collegamento al rosso lo trasporta istantaneamente nell’ambito del mondano e dell’umano. Perciò in questo caso il bianco va collegato allo yang e il rosso va collegato allo yin. Questa combinazione alluderebbe allora al desiderio dell’uomo di creare un legame fra la propria vita e il mondo degli dei. Come sostiene Tanaka, un culto virtuale di rosso e bianco si è stabilito saldamente in Giappone sin dai tempi più antichi, ma il concetto cromatico dell’unione di questi due colori ha assunto la sua forma classica proprio con la creazione del peculiare trucco per lo stile di recitazione aragoto concepito da Ichikawa Danjurō I.

R.M.

NOTE

[1] Roland BARTHES, L’impero dei segni, trad. it. di Marco Vallora, Torino, 1984, Einaudi, p. 105-108 (ed. or. L’empire des signes, Génève, Editions d’Art Albert Skira, 1970).

[2]Giovanni AZZARONI, Dentro il mondo del kabuki, Bologna, Clueb, 1988, p. 262.

[3] Si veda TANAKA Ikkō, KOIKE Kazuko (eds), Japan Color, San Francisco, Chronicle Books, 1982.


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