Cambogia: teatro e danza

dal volume TEATRO E DANZA IN CAMBOGIA
di  Fabio Morotti

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Nella tradizione delle danze di corte cambogiane il teatro e la danza si mescolano in un tipo ibrido di rappresentazione, dove la danzatrice-mimo diventa la protagonista assoluta della scena, grazie ad un lungo e rigoroso addestramento che ne riformula completamente il movimento. L’ormai anziano scultore francese Rodin, all’inizio del secolo XX, fu uno dei primi occidentali a conoscere il teatro classico Khmer [1], e a coglierne, con la sua sensibilità d’artista, la natura sacrale, ponendo l’accento sull’assoluta perfezione e plasticità dei gesti e dei movimenti. Partiture fisiche che posseggono profondi significati spirituali, spesso oscuri simboli di un antico linguaggio metafisico (per lo più) dimenticato.

L’arte couretica che per secoli è stata praticata nelle corti dei re cambogiani, è il risultato dell’incontro e della fusione delle tecniche di danza venute dall’India, durante la civiltà del Funan (I-IV sec. d.c.), con le sconosciute e primitive danze autoctone, legate al culto del serpente naga. Ma è durante il periodo di massimo splendore della storia cambogiana, nel cosiddetto periodo angkoriano (IX-XV sec. d.c.) che la danza, ormai diventata una forma d’espressione originale, raggiunse la massima fioritura e diffusione. Nella loro trasfigurazione celeste, le danzatrici dei templi (quelle che in India erano chiamate deva-dasi) Khmer furono raffigurate sui bassorilievi come apsara, le mitiche ninfe del paradiso di Indra che danzavano per allietare gli dei. Come testimoniano i numerosi reperti archeologici, le apsara divennero l’immagine simbolo dell’arte del periodo angkoriano; molte delle pose e delle figure delle mani (i cosiddetti Kbach), che esse mostrano scolpite sulle mura dei templi, sono simili a quelli usati oggi nel teatro-danza, e rimandano ad una stessa concezione spirituale del movimento.

È difficile dire con certezza quali siano stati i tipi di generi teatrali e i loro repertori nel passato, per la scarsa quantità di materiali e documenti disponibili. Il teatro-danza femminile, il Lakhaon Kbach Boran, quello maschile, il Lakhaon Khaol, i teatri popolari ed il teatro delle ombre (Sbek Thom) rappresentano oggi soprattutto le storie del Riemker, la versione cambogiana del Ramayana, una saga epica induista diffusasi a partire del primo secolo dopo cristo e conservatasi anche in seguito, quando la religione ufficiale del paese divenne il Buddismo. Le rappresentazioni teatrali che hanno oggi al centro le vicende del Rimker oscillano fra (percezione del) sacro e profano, fra credenza nelle forze occulte, sentimento religioso e puro intrattenimento, che solo negli ultimi anni sembra lentamente prevalere sull’aspetto rituale della performance.

In un grezzo edificio di legno sulla riva del fiume Mekong, a soltanto quindici chilometri a sud della capitale, nella cerimonia teatrale che tutti gli anni continua a celebrare una piccola comunità di contadini presso il tempio (Wat) Svay Andet, le storie del Riemker continuano ad esser il mezzo privilegiato per la comunicazione con il mondo degli spiriti e degli antenati. Come offerta ai numi ed alle divinità della zona, pochi giorni dopo l’entrata nel nuovo anno Khmer (verso la metà d’Aprile), la ‘cerimonia teatrale’ al tempio di Svay Andet è preceduta da una complessa serie di rituali, dove le maschere, le danze e le possessioni degli spiriti rivestono un ruolo centrale. Gli spiriti entrano nei corpi delle rup (gli ‘intermediari’), presenti fra il pubblico, per comunicare la loro volontà, benedire gli astanti e quindi garantire alla comunità la prosperità ed il benessere di cui ha bisogno.

Le rappresentazioni di Lakhaon Khaol a Svay Andet (che durano in genere tre giorni) sono l’ultimo esempio di una forma di teatro-danza popolare, legato integralmente al sincretismo religioso tipico della Cambogia, in cui confluiscono animismo, induismo e buddismo. Negli anni Sessanta gruppi del genere erano ancora numerosi nella province attorno alla capitale, ma solo quello di Wat Svay Andet fu in grado di ricostruirsi dopo il tragico regime di Pol Pot (1975-79).

La ricomposizione del Lakhaon Khaol e degli altri generi cambogiani, ugualmente colpiti dalla rivoluzione del leader comunista, presso l’”Università Reale di Belle Arti” (URBA) di Phnom Penh – che a partire degli anni Ottanta ha avuto il compito di conservare le arti performative – fu in gran parte merito d’anziani e coraggiosi maestri, Yith Sarin, Em Thiey, Chea Samy, che riuscirono miracolosamente a scampare alla morte e alle persecuzioni dei Khmer Rossi [2].

Nel 1941 Yith Sarin era entrato giovanissimo a Palazzo, diventando il primo interprete di sesso maschile a far parte di una tradizione coreutica che per secoli era rimasta di pertinenza strettamente femminile. Infatti, i re che precedettero Norodom Sihanouk possedettero, tutti, troupe di danzatrici, che vivevano, per lo più come schiave, recluse all’interno della cittadella reale ed erano considerate una diretta proprietà del sovrano.

Nel corso del XIX secolo le danzatrici del re venivano consacrate per sempre al sovrano ed alla danza sin dalla più tenera età. Bambine comprese fra i quattro e i cinque anni [3] erano portate a corte e selezionate in base alla loro bellezza, alle caratteristiche fisiche e morfologiche, per scegliere immediatamente quale dei quattro differenti ruoli-tipo (Niey Rong, Nieng, Yeakh, Sva) del teatro dovessero incarnare. La famiglia era ricompensata con una piccola somma di denaro ed acquisiva importanti meriti religiosi, poiché il re è sempre stato riconosciuto nella credenza popolare al pari di una divinità. Scelte per far parte dell’harem del re, le bambine venivano segregate all’interno delle mura del Palazzo Reale, così come, in passato, accadeva con le danzatrici dei templi angkoriani.

L’usanza dei sovrani cambogiani di possedere harem di danzatrici è connessa ad una antica credenza popolare. Le danzatrici sono, infatti, associate con l’acqua e la fertilità della terra; il loro assoggettamento e la loro unione con il sovrano rappresentava quindi metaforicamente la fecondazione ed il controllo delle forze ad esse associate (siccità, inondazioni ed alluvioni) e significava per il popolo la sicurezza dell’abbondanza nel raccolto.

In un periodo di forte mutamento culturale e politico come fu quello degli anni in cui Yith Sarin entrò a corte, la regina Kossamak, patrona delle arti cambogiane, inaugurò in generale un ben più vasto programma di rinnovamento per la tradizione coreutica, che portò alla ‘liberazione’ delle danzatrici di corte, alla nascita e alla riformulazione delle più famose danze del paese. Con l’ottenimento dell’indipendenza dal governo coloniale francese nel 1953, la tradizione del teatro classico entrò nella sua stagione più celebre, ed il Balletto Reale divenne l’immagine più eloquente e famosa della cultura cambogiana. Ma gli anni Settanta segnarono una brusca interruzione nello sviluppo artistico del paese. I Khmer Rossi compirono uno dei genocidi più cruenti e sanguinosi della storia, dove trovarono la morte circa un milione e mezzo di cambogiani (circa un quarto della popolazione complessiva). I soldati di Pol Pot con minuzia ricercarono e distrussero ogni oggetto d’arte, strumento e costume del teatro, e bandirono ogni tipo di forma artistica tradizionale, seguendo i folli dettami ideologici della nuova era comunista. L’accanimento spietato, mostrato nei confronti degli artisti, portò alla morte di un numero impressionante di danzatori e d’attori (circa il 90 per cento di quelli che lavoravano per l’importante università di Phnom Penh).

Negli anni Ottanta la guerra civile continuò a lungo ad insanguinare il paese, soprattutto nelle regioni ad ovest del paese, dove i Khmer Rossi si erano ritirati dopo la ‘liberazione’ vietnamita, tornando alla guerriglia. A dispetto della povertà, che a lungo in quegli anni rimase cronica, il teatro seppe faticosamente ricostruirsi, supportato da numerosi filantropi ed associazioni umanitarie. Oggi, con la fine d’ogni tipo d’ostilità ed il miglioramento generale delle condizioni di vita, il teatro-danza classico e, in generale, tutte le altre arti performative affrontano la difficile transizione verso la modernità, trovando nel turismo l’unica vera, ma contraddittoria, certezza per il futuro.

 Fabio Morotti

NOTE

[1] Sinonimo di cambogiano.
[2] Soldati e quadri del partito comunista.
[3] Quella è, infatti, considerata l’età adatta per trasformare il corpo e le articolazioni secondo i dettami estetici della danza.


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Fabio Morotti
Teatro e danza in Cambogia
368 p., ill.
Editoria & Spettacolo, Riano (Rm) 2010
ISBN 978-88-89036-75-4

Fabio Morotti è nato a Roma nel 1981. Dopo la laurea in DAMS (2003) si è dedicato allo studio della cultura cambogiana, alternando la ricerca e l’indagine ‘sul campo’ al lavoro di film-maker. Ha pubblicato Teatro e Danza in Cambogia (Editoria e Spettacolo, 2010), e per la rivista «Lo Straniero» l’articolo Ko Phan Gan: l’isola del plenilunio insigne.

Primo testo esaustivo pubblicato in Italia sull’argomento, Teatro e danza in Cambogia guida il lettore alla scoperta di una delle più intriganti e complesse tradizioni artistiche del lontano Oriente. Con un approccio allo stesso tempo antropologico e storiografico, l’autore passa da un esauriente excursus nella storia cambogiana a un’analisi dettagliata ed esaustiva delle storie, dei generi, dei linguaggi, dei particolari dei costumi dell’arte performativa della Cambogia; il tutto corredato da disegni e fotografie esplicative della fotografa Daniela Pellegrini.  La prefazione di Nicola Savarese non fa che impreziosire un libro che senza dubbio diventerà un passaggio obbligato per tutti gli studiosi e gli appassionati di arte e teatro orientali.